10 aprile 2020

Quel che accende il motore

Giorgio Vittadini - Il Sussidiario.net

Nemmeno le festività pasquali riusciranno a distogliere da un pensiero fisso: se il Paese non verrà riavviato presto, sarà un disastro economico e sociale. Con tutte le precauzioni del caso, in un modo graduale e guidato, bisogna tornare a dare fiato al sistema, possibilmente superando zavorre storiche come la presenza asfissiante della burocrazia.

Nell’immediato, occorrerà comunque tamponare il più velocemente possibile il bisogno di liquidità, oltre che, naturalmente, risolvere l’emergenza sanitaria. Ma la fase della ricostruzione, il “dopo”, deve iniziare adesso.

Una volta stanziate le risorse per i bisogni immediati di questi giorni e dei prossimi mesi, dove si possono reperire i soldi per ripartire?

In attesa che venisse definita l’entità dell’intervento europeo (dopo la decisione dell’eurogruppo di ieri sera bisogna aspettare la decisione dei leader europei), si ragionava sull’ipotesi di un grande prestito nazionale con il contributo dei cittadini italiani, ovvero l’emissione di titoli di Stato congegnati in modo da invogliare le imprese e le famiglie, a investire una parte dei 1.500 miliardi fermi in conti correnti e depositi per il bene del Paese.

È vero che in questi giorni molti stanno scoprendo risorse personali e collettive inedite. Ma in questo caso si tratterebbe di affidarle a un progetto comune, mediato da un livello politico e istituzionale che ha perso credibilità e stima in tanta parte dei cittadini. Chi o cosa potrebbe convincere a rischiare le proprie risorse? Non basta argomentare che non c’è scelta, che se il Paese non si rialza, quelle risorse perderanno valore. Perché tutti si sentano interpellati direttamente in una costruzione comune, che richiede impegno, consapevolezza, responsabilità, oltre che soldi, ci vuole ben altro.

L’ultima volta che gli italiani hanno aderito alla richiesta di un sacrificio per l’interesse nazionale è stato nel 1985, in occasione del referendum sulla scala mobile. Bettino Craxi convinse più del 50 per cento degli elettori che era meglio rinunciare ad aumenti automatici e sicuri dello stipendio per limitare l’inflazione e far navigare il Paese in acque più sicure. Ma Craxi era allora credibile e parlava non a individui isolati, resi superficiali e suscettibili dai talk show televisivi. Si rivolgeva a persone che avevano ancora dei riferimenti in comunità, realtà sociali, copi intermedi, di diverso genere, dov’era possibile confrontarsi, capire di più e, soprattutto ritrovare le ragioni, il gusto e la fiducia di intraprendere, di spendersi in un progetto, di partecipare a una costruzione comune.

Gente educata a dialogare, a cercare il senso di quel che faceva, non in raduni oceanici ed estemporanei, ma in realtà a misura d’uomo, dove gli incontri erano continui e dove era più facile valutare la bontà di una proposta e decidere liberamente a chi dare fiducia.

I responsabili di queste realtà, di diversa appartenenza ideologica, emergevano come leader popolari, condividevano un’idea di bene comune, coscienti che un corpo intermedio muore se non aiuta la gente a coinvolgersi, a dare qualcosa di sé per la comunità civile a cui appartiene.

Anche oggi, leader più vicini, di cui è più facile accertare il valore ideale, possono aiutare ad aderire a iniziative volte al bene collettivo. E non è detto che, sostenendo questa dinamica, non si recuperi anche quel senso di sé, della propria identità, così in crisi in questa epoca.

Si può ricominciare da luoghi di questo tipo, dove si ricostruiscono reti di dialogo e “ponti” con le istituzioni. Non c’è Stato democratico senza questa dimensione.

Viene chiamato “Terzo settore”, come sostiene Jeremy Rifkin, “quasi a sottolineare la minore rilevanza rispetto al mercato e alla Pubblica amministrazione ma, in realtà, la società civile è il settore primario. È qui che le persone creano le narrazioni che definiscono la loro vita e quella della società e costituiscono il terreno culturale comune che permette loro di stabilire quei legami emotivi di affetto e fiducia che sono il principale nutrimento dell’esistenza empatica. […] Senza cultura sarebbe impossibile impegnarsi in attività economiche e commerciali e di governo. Gli altri due settori richiedono una continua iniezione di fiducia sociale per poter funzionare. Anzi, il mercato e la pubblica amministrazione si nutrono della fiducia sociale e si indeboliscono e crollano se questa viene a mancare. Ecco perché non si hanno esempi nella storia di mercati o governi che abbiano preceduto la cultura o che siano esistiti in sua assenza. […] È la cultura a creare il bacino empatico di socialità che permette alle persone di impegnarsi con fiducia le une con le altre nel mercato o nella sfera pubblica”.

Il grande afflato generoso e solidaristico di questo momento di crisi non si esaurirà se troverà ambiti in cui verrà continuamente sostenuto. Solo così, solo se opinion leader e politici dialogheranno con queste miriadi di luoghi, senza far calare dall’alto le loro decisioni e solo se queste realtà continueranno a mediare tra Stato e cittadini, si potrà trovare la strada della ricostruzione. Senza un movimento di coscienze che “dal basso” si “accendono” in comunità di base, senza cultura sussidiaria che crea alleanza tra questi gruppi e il livello politico e istituzionale, vinceranno prospettive di piccolo cabotaggio. Cioè non vincerà nessuno.

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