29 luglio 2023   Articoli

Il coraggio utile per inseguire il "nuovo" lavoro

Amedeo Lepore - Il Mattino

Il capitalismo delle piattaforme rappresenta il tratto più avanzato di un sistema economico che, in vigore da due secoli e mezzo, si è dimostrato il più resiliente e capace di ardite trasformazioni per fronteggiare le crisi, modificare i rapporti di produzione, ampliare le modalità di creazione del valore e accompagnare l’evoluzione della società. 

Il capitalismo non è stato un fenomeno lineare e privo di fasi di arretramento e declino, ma finora ha tracciato il percorso di formazione della ricchezza più efficace della storia.

Naturalmente, oltre ai fattori propulsivi, vi sono altri aspetti del capitalismo che hanno richiesto un’opera di correzione sostanziale e progressivo superamento dei suoi limiti, a cominciare dai problemi delle gravi disuguaglianze, delle disparità di opportunità, della sostenibilità ambientale, degli squilibri settoriali e territoriali. 

Non si può dire che questo impegno sia compiuto, né che le questioni poste dalle contraddizioni interne al sistema siano state risolte. Nel contesto attuale, il punto cruciale è sicuramente la costruzione di un nuovo paradigma, dopo la crisi del modello fordista-keynesiano (l’affermazione dell’industria di massa e l’avvento dell’intervento pubblico per eliminare le strozzature della sovrapproduzione) e il tracollo del più recente schema neoliberista (lo smembramento dell’azione dello Stato e la prevalenza di un processo di deregolamentazione dei mercati). 

Le piattaforme digitali sono un meccanismo generativo per promuovere la valorizzazione del capitale mediante l’automazione e la gestione intelligente di una mole sempre più vasta di informazioni. 

Nick Srnicek in Platform Capitalism ha osservato che “il capitalismo sviluppa non solo mezzi per un maggior monopolio ma anche mezzi per una maggiore concorrenza” e “si autorinnova attraverso la creazione e l’adozione di nuovi complessi tecnologici”. 

Oggi, queste infrastrutture moltiplicano il trasferimento di idee, dati e conoscenze, lo scambio di beni e servizi, alimentando un mercato virtuale in grado di accelerare un radicale mutamento economico, sociale e culturale. 

La quarta rivoluzione industriale, nella logica della “burrasca di Schumpeter” – più nota come “distruzione creatrice” –, è l’asse intorno al quale si uniscono i tasselli di una nuova era contrassegnata dal passaggio al capitalismo digitale, che manca ancora di una base teorica organica. 

Questi temi vengono affrontati in un libro di Pietro Spirito, denso di argomentazioni e frutto di uno studio approfondito. 

Si possono discutere alcuni approcci del volume dal titolo La digitalizzazione del lavoro. Percorsi di trasformazione senza diritti, incline a un’interpretazione severa dei fenomeni in atto e a un consapevole pessimismo, ma la sua lettura, intelligibile e scorrevole, permette di focalizzare l’attenzione su nodi essenziali di questa fase di transizione. 

La dimensione digitale della modernità, i capisaldi culturali del capitalismo delle piattaforme, le forme inedite dell’organizzazione aziendale, le dinamiche dell’occupazione nei nuovi sistemi della logistica, le molteplici metamorfosi del lavoro e l’adeguamento delle competenze all’interno del ciclo odierno di innovazione tecnologica sono i contenuti principali nei quali si articola il volume. 

L’impatto delle tecnologie sul lavoro dell’uomo ha sempre fatto parte dei processi innovativi, fin dalla prima rivoluzione industriale, quando la distruzione delle macchine da parte di operai (luddismo) fu presto sostituita dall’organizzazione del movimento sindacale e dalla legislazione sociale per la tutela dei lavoratori. 

In questo modo, prevalse la coscienza dell’enorme progresso apportato dai macchinari, grazie all’aumento della produttività, favorendo la soluzione della drammatica penuria di risorse che aveva afflitto la crescita demografica preindustriale. Da quel momento, si aprì l’epoca dell’abbondanza – e dell’eccesso di merci – che ha caratterizzato buona parte dell’Ottocento e del Novecento. 

Con l’introduzione di dispositivi che rendevano obsoleta la vecchia standardizzazione, poi, il lavoro di massa è stato man mano rimpiazzato da forme aggiornate e più agili, funzionali a un incremento di qualità e una personalizzazione della produzione. 

L’ultima generazione di tecnologie abilitanti e l’intelligenza artificiale stanno ulteriormente cambiando il quadro di riferimento, tramite la produzione di merci a mezzo di piattaforme. Il criterio dirimente per gli assetti dell’economia è legato alla possibilità di ottenere più beni e servizi con meno risorse, quindi anche con una minore quantità di occupazione. 

Mentre è comprensibile l’incertezza provocata da questo rivolgimento, non è concepibile un timore deterministico per le sorti del lavoro. Del resto, l’elemento decisivo di questa trasformazione è il tempo necessario per evitare uno scostamento tra la riduzione degli impieghi tradizionali e la diffusione dei nuovi lavori e delle relative abilità. 

Dani Rodrik ha sostenuto che: “L’innovazione scientifica e tecnologica può essere necessaria per la crescita della produttività che arricchisce le società, ma non è sufficiente. 

Senza il giusto tipo di politiche complementari, il progresso tecnologico potrebbe non portare a un miglioramento sostenibile del tenore di vita”. Questa esigenza riguarda un intervento pubblico capace di agevolare le politiche del lavoro, interagire con le imprese e arginare i rischi per la conversione dell’occupazione. 

Infine, nel libro di Spirito ricorre un assillo per il predominio di quello che Shoshana Zuboff ha definito Il capitalismo della sorveglianza, che potrebbe porre sotto il suo controllo il pensiero, i comportamenti e l’attività degli uomini. 

In realtà, se consideriamo l’evoluzione delle facoltà umane e la forza di liberazione costituita da un’automazione simbiotica con l’uomo, anche questo spettro può scomparire dall’orizzonte del prossimo futuro.

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