28 marzo 2020   Articoli

La fame non va in quarantena

Maurizio De Giovanni - Corriere del Mezzogiorno

Quando si riceve una coltellata la preoccupazione è la ferita in sé.

Quanto sanguini, quanto sia profonda; i bordi frastagliati, i muscoli o i tendini lesionati. Quello a cui non si pensa, negli attimi immediatamente successivi al colpo, è la concreta probabilità di un’infezione; eppure la grande maggioranza delle volte è proprio quella, l’infezione, a creare all’organismo danni irreversibili, spesso addirittura letali.

In questi giorni di assurda sospensione, in una città deserta e silenziosa, ci preoccupiamo giustamente del problema sanitario. L’epidemia corre implacabile e sembra di sentirne l’urlo di belva famelica, il freddo abbraccio mortale che si sta portando via tanti, ogni giorno più morti, ogni giorno più contagiati, ogni giorno più ricoverati. Siamo attoniti davanti al televisore, disquisiamo di curve e di picchi, teniamo il conto dei ricoverati temendo per la tenuta di un sistema sanitario così gravemente sperequato tra nord e sud.

Ci preoccupiamo per la ferita, adesso che abbiamo ancora il coltello che affonda nella carne molle di un paese debole, in cui la vasta popolazione di anziani presenta il conto della propria immensa fragilità.

Ma oggi, a un mese circa dall’inizio dell’incubo, dobbiamo cominciare a preoccuparci dell’infezione. Che in una città come questa, col tessuto economico che caratterizza la lotta per la sopravvivenza di un popolo, rischia di essere mortale quanto e più del virus.

Un mese. Trenta giorni, novanta pasti. Un canone di locazione, rate di debiti pregressi fatti per comprare la cucina, l’arredamento, un’automobile di seconda mano per andare a lavorare. Trenta notti da riscaldare, in questa perfida coda d’inverno che non tiene conto delle difficoltà. Un mese da vivere, senza poter far fronte nella solita difficile maniera, lecita o illecita che sia.

Un mese, e nemmeno una data da aspettare per poter pianificare, come possibile, una ripresa delle entrate. Un mese e magari un altro, il prossimo, in cui le strade saranno ancora pattugliate e si correrà il concreto rischio di essere sottoposti a sanzioni amministrative che aggraverebbero se possibile la situazione.

Un mese e chissà quanti altri prima che sia consentito un ritmo di vita normale, in una città che aveva trovato nel turismo e nell’accoglienza una nuova possibilità, un’economia che prima non c’era e che dava lavoro quanto una grande fabbrica, con mille corollari e tanto indotto.

Non rileva, nell’ipotizzare l’infezione, se il problema investirà piccoli onesti lavoratori di aziende che chiuderanno o persone che operano nella zona grigia dei senza fattura: non c’è differenza perché un capofamiglia è un capofamiglia, e ogni mattina guarda i figli dormire e si pone il problema di quello che dovranno mangiare. Non tra tre o sei mesi, quando verranno sbloccati fondi o quando i negoziati europei avranno eventualmente convinto Germania e Danimarca a emettere bond anticrisi. Un capofamiglia dell’area più densamente popolata del continente deve dare da mangiare ai suoi oggi, e qui. Non può attendere che la Merkel si decida.

L’emergenza, quella vera, rischia di esplodere al supermercato e non in ospedale. Rischia di manifestarsi in una massa urlante che prende quello che serve senza chiedere, e senza preoccuparsi delle videocamere di sorveglianza, mascherina o passamontagna che sia. Perché nessuna forza o principio di onestà al mondo può fermare un padre e una madre che devono nutrire il proprio bambino.

E’ necessario che si faccia presto. Che si provveda immediatamente alla sussistenza. Perché il virus più mortale è la rabbia.

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Covid-19

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