13 dicembre 2020   Articoli

Ilva, l'accordo un passo avanti. Ma ancora tanti nodi da sciogliere

Claudio De Vincenti - Corriere del Mezzogiorno

L’accordo che ha preso forma giovedì scorso per l’ingresso di Invitalia come azionista in AM Investco (AMI) segna un passo avanti in una vicenda tormentata e di importanza decisiva. Ma non scioglie tutti i nodi che rendono tuttora molto aggrovigliato il futuro del più grande stabilimento siderurgico d’Europa.

Al momento sappiamo che l’accordo prevede la ricapitalizzazione di AMI con un primo investimento a febbraio di 400 milioni di euro da parte di Invitalia, che diventerebbe azionista al 50%. La ricapitalizzazione si completerebbe nella primavera 2022, cioè al momento dell’acquisto da parte di AMI dei complessi aziendali ex-Ilva, con un ulteriore investimento di 680 milioni da parte di Invitalia e di 70 milioni da parte di ArcelorMittal, con quote azionarie pari rispettivamente al 60 e al 40%. La governance di AM Investco si baserebbe sul principio del controllo congiunto, sembra con un CdA paritario e la nomina di intesa di presidente e amministratore delegato.

Del Piano industriale si conoscono solo le coordinate generali: realizzazione di un forno elettrico da 2,5 milioni di tonnellate, alimentato da un impianto di preridotto costruito e gestito da una società ad hoc; rifacimento dell’altoforno 5 con tecnologie innovative; produzione complessiva a regime (2025) di 8 milioni di tonnellate; occupazione totale, sempre a regime e comprese Genova e Novi Ligure, di 10.700 persone, con il ricorso alla Cassa integrazione guadagni a carico dello Stato per tutta la fase di transizione.

Il passo avanti di cui parlavo all’inizio sta nell’aver riaperto una prospettiva di continuità produttiva e di possibile successiva ripresa, precondizione indispensabile per ragionare costruttivamente del futuro. Un passo avanti quindi che nei fatti chiede a tutti gli attori di questa vicenda – AM Investco, sindacati, autorità locali e regionali – di essere capaci di operare costruttivamente per sciogliere, non per aggrovigliare, i nodi sul tappeto. Dai sindacati è già venuta una risposta positiva, che peraltro a sua volta chiede giustamente l’apertura di un confronto sul Piano industriale e sulle garanzie ambientali. Altrettanto non è accaduto finora da parte delle autorità locali e regionali, forse non pienamente consapevoli dei rischi di desertificazione industriale che la chiusura dell’area a caldo provocherebbe nel loro territorio.

Restano però molti punti interrogativi che al momento l’accordo non scioglie. Per costruire una soluzione stabile è necessario mettere in ordine tutti i tasselli che compongono il quadro. Prima di tutto, un Piano industriale che non si limiti a fissare alcune coordinate ma che chiarisca gli investimenti da fare sulle diverse componenti del ciclo integrale per assicurarne il risanamento ambientale e la competitività industriale. In secondo luogo, un’autorizzazione integrata ambientale che traduca gli impegni in regole cogenti per l’impresa. Va poi ricostituito un quadro di regole certe per l’attività di aziende impegnate nel risanamento ambientale di situazioni compromesse da comportamenti passati.

E ancora, il decisivo tema occupazionale: se vale, come dicono gli esperti del settore, la corrispondenza “un milione di tonnellate – mille dipendenti”, l’impegno a un livello di occupazione di 10.700 persone è coerente con l’obiettivo di 8 milioni di tonnellate prodotte a regime? Non sarebbe il caso di affrontare di petto questo problema, cui si aggiunge anche quello del riassorbimento dei 1.700 lavoratori oggi fuori del perimetro AMI? E’ ora quindi di far diventare finalmente operativo il cosiddetto “Cantiere Taranto”, coinvolgendo le forze migliori della città, rafforzando il Contratto istituzionale di sviluppo già operante dal 2016 e sbloccando la realizzazione della Zona Economica Speciale.

Infine, la questione - condizionante per gli sviluppi futuri - della compagine societaria. Prima di tutto il ruolo effettivo di Invitalia nella governance della società sia per quanto riguarda le scelte industriali che quelle commerciali, decisive affinché gli 8 milioni di tonnellate da produrre a regime abbiano realmente mercato e non restino una chimera. In secondo luogo, il coinvolgimento di imprenditori italiani dell’acciaio, tema di cui si era molto parlato nei mesi scorsi ma di cui non vi è traccia nell’accordo. Eppure, proprio un simile coinvolgimento sarebbe garanzia del posizionamento competitivo della nuova società: per confrontarsi con la concorrenza su un mercato globale come quello dell’acciaio c’è bisogno di imprenditorialità, capacità innovative, efficienza produttiva e qualità del prodotto.

Sta allora al Governo chiarire se l’intervento di un soggetto pubblico nel capitale d’impresa va inteso come volto a promuovere imprenditorialità e innovazione o come riedizione di vecchie e fallimentari logiche assistenzialistiche.

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