12 dicembre 2020   Articoli

Proposte da rimodulare per non favorire gli indiani

Federico Pirro - La Gazzetta del Mezzogiorno

Regione Puglia e Comune di Taranto mirano ad un accordo di programma con il Governo per dismettere l’area a caldo del Siderurgico, o almeno per una sua radicale riconversione tecnologica.

Ora, se è condivisibile il loro obiettivo di tutelare salute, ambiente e lavoro, una prima domanda però si impone: la posizione della Regione nasce da una decisione motu proprio del Presidente, o anche da un atto di indirizzo della Giunta ? E se esso esistesse è stato poi presentato in Consiglio regionale ? Poiché si discute del futuro della più grande fabbrica manifatturiera d’Italia - su cui dovrebbe esprimersi lo stesso Parlamento - sarebbe opportuno che anche le Istituzioni locali (per prime) assumessero atti ufficiali nei rispettivi consessi. Inoltre la segreteria regionale del PD, forza di maggioranza della coalizione di governo pugliese, con la sua Direzione nazionale, che posizione assume sulle ipotesi di Emiliano e Melucci ?

Circa le loro proposte impiantistiche, esse prevederebbero o la chiusura dell’area a caldo - conservando nel sito ionico un’attività di laminazione con il raggiungimento di circa 5,4 milioni di tonnellate l’anno, ma con 4.600 esuberi diretti, un indotto locale ridimensionato e lavorazioni a freddo a Genova e Novi Ligure ridotte - o una totale riconversione con produzione solo da forni elettrici, l’ottenimento a regime di 8 milioni di tonnellate l’anno, l’impiego del preridotto di ferro, ma sempre con esuberi d 4.200 unità, e con dimensioni dell’indotto territoriale e delle lavorazioni al Nord ‘da valutare’.

La dismissione dell’area a caldo per i Sindacati comporterebbe di fatto la chiusura dello stabilimento, un impianto a ciclo integrale complesso che, privato dell’area fusoria, non raggiungerebbe l’economicità di gestione. Chi infatti porterebbe bramme da laminare a Taranto (con relativi costi di trasporto) per riportarne i prodotti finiti sui mercati del Nord ed esteri ? Oltretutto il mercato mondiale delle bramme è di sole 40 milioni di tons all’anno. L’ipotesi invece di produrre solo con forni elettrici per giungere a 8 milioni di tonnellate l’anno richiederebbe almeno 4 milioni di tons di rottame - peraltro già scarso sul mercato per l’elettrosiderurgia italiana che lo paga 10-20 euro in più a tonnellata rispetto al resto d’Europa - e soprattutto necessità di pellets di preridotto di ferro prodotti con un prezzo del gas molto basso, sapendo peraltro che quello dei pellets ha quotazioni maggiori di 30-50 dollari se destinati alla preriduzione, perché il mercato impone un extraprezzo per una migliore efficienza di resa.

Tale nodo peraltro sembra (al momento) irrisolto anche nel piano di Invitalia e Arcelor Mittal che prevede il revamping dell’Afo 5 - che permette economie di scala e un grande vantaggio competitivo - l’esercizio di un altro Altoforno e un forno elettrico il cui fabbisogno di preridotto di ferro non si comprende ancora da chi e a quale costo debba essere soddisfatto.

Delle due ipotesi avanzate dagli Enti locali, pertanto, pur nella loro evidente diversità, la prima risulta impraticabile anche per la Confindustria ionica - che vuole conservare l’area a caldo, in accordo con il progetto della Federmanager - mentre la seconda esige approfondimenti sotto il profilo dell’approvvigionamento di materie prime e del loro costo.

Per l’occupazione le due ipotesi creano perplessità prevedendo l’una e l’altra ben oltre 4.000 esuberi diretti, quando non anche il rischio di chiusura dello stabilimento. Ma anche nell’accordo di Invitalia e di Arcelor, che conserverebbe a regime 10.700 occupati, non si recuperano i 1.700 addetti oggi in cigs presso l’Amministrazione straordinaria, come invece prevedeva l’accordo del 6 settembre 2018, mentre la gestione temporanea dell’occupazione prima del raggiungimento di 8 milioni di tonnellate nel 2025 è prevista solo con la cig, alimentando così diffidenze  sindacali.

Regione e Comune vorrebbero tuttavia regolare anche le flessioni occupazionali legate alle loro ipotesi con un accordo di programma con il Governo che individui le risorse per quello scopo. Ma in ambienti governativi si osserva che il capoluogo ionico già gode di un Contratto istituzionale di sviluppo con una dotazione di oltre un miliardo di euro, in parte già impegnata e in parte già spesa, oltre che degli impegni in via di definizione nel ‘Cantiere Taranto’, per cui sarebbe anche politicamente difficile ottenere molte altre risorse, destinabili invece ad aree del Sud senza la base industriale tarantina e con problemi occupazionali aggravati dalla pandemia.

Ma se malauguratamente si dismettesse l’intero sito, ciò avvantaggerebbe proprio Arcelor Mittal che, da un lato, vedrebbe eliminato un forte concorrente e, dall’altro, imputerebbe al Governo lo stravolgimento di quanto stabilito nel bando per la vendita del Gruppo Ilva, con intuibile richiesta di danni; senza contare infine che l’Ilva in AS è chiamata a ristorare con il ricavato della vendita del Gruppo i suoi creditori.

Allora, le proposte degli Enti locali dovrebbero ignorarsi ? Nient’affatto, ma solo, a nostro avviso, rimodularsi. Ad esempio, perché non prevedere un addendum al Contratto istituzionale di sviluppo che quantifichi le (ragionevoli) risorse - da stanziarsi con quote annuali per un certo periodo - per realizzare a Taranto nuovi complessi abitativi per ‘sfollamenti programmati’ dal quartiere Tamburi ? E’ un’ipotesi lanciata dal prof. Umberto Ruggiero, già rettore del Politecnico di Bari, e praticata a Genova per l’abbattimento e la ricostruzione del ponte. La stessa foresta urbana già prevista potrebbe trovare finanziamento nell’addendum, cosi come quella di anticipare il completamento dell’Aia.

Per il drastico contenimento delle emissioni nocive poi non si potrebbe valutare con Ispra, Arpa e Istituto superiore di sanità come - con la copertura di tutti i parchi minerali e l‘adozione di tecnologie avanzate per gli altiforni allo studio della Paul Wurth, leader nell’impiantistica siderurgica - sia possibile porre sotto totale controllo le cockerie da lasciare in esercizio secondo quanto previsto dal piano di Invitalia ?

E per l’occupazione non si potrebbe rivisitare (per attrarre investimenti) il piano di sviluppo strategico della ZES ionica in cui sono individuati con dettagli merceologici i settori sviluppabili (perché già presenti) nel Tarantino e quelli invece da promuovere perché non ancora insediati ?

In questa fase della vita politica nazionale non servono a Taranto e alla Puglia strappi drammatici e prove muscolari. Ancora una volta devono essere le parole dell’Arcivescovo Monsignor Santoro - che richiama sempre la necessità di tutelare salute, ambiente e lavoro - la stella polare per gli uomini di buona volontà. Soprattutto in questo tempo di Avvento.

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