19 marzo 2021   Articoli

Una politica industriale per l'Italia post-pandemia

Claudio De Vincenti per la Fondazione Ebert

1 Introduzione

Come e ancor più che in altri Paesi europei, anche in Italia la crisi economica indotta dalla pandemia di Covid-19 ha avuto conseguenze pesanti, oltre che sui redditi e sulle condizioni di vita delle persone nella fase acuta dell’emergenza, anche sui livelli di Pil e di occupazione da cui deve ora ripartire l’economia. Le stime pubblicate a novembre dalla Commissione Europea segnalano una caduta del Pil italiano nel 2020 pari al 9,9% e una previsione di ripresa nel 2021 limitata al 4,1%. 

Al di là delle previsioni a breve termine, sulle prospettive future pesa il fatto che l’Italia fronteggia problemi strutturali che si trascinano da tempo, indebolendo il suo tessuto produttivo, e che derivano da una prolungata carenza di investimenti privati e pubblici che negli ultimi venti anni ha eroso la base produttiva e frenato la dinamica della produttività. Quindi, la discontinuità fondamentale da introdurre con le politiche del dopo-Coronavirus consiste nel gettare finalmente le fondamenta per un ciclo di investimenti sostenuto e stabile nel tempo. 

E’ sulla costruzione di un simile quadro di riferimento per gli investimenti che si misurerà la politica industriale ed è utile perciò provare a fare qui il punto sullo stato dell’arte oggi in Italia. Come vedremo, il nodo da sciogliere è quello di una politica industriale che non ripercorra gli errori che determinarono la sua crisi negli anni Ottanta del Novecento e sappia fare propri, in una sintesi più avanzata, le innovazioni contenute nella stagione delle liberalizzazioni e della riforma della regolazione che ha caratterizzato gli anni Novanta e il primo decennio degli anni Duemila. 

Una impostazione di politica industriale, quindi, che faccia tesoro dell’esperienza passata nelle sue luci – l’esigenza di dare un orientamento di interesse generale all’operare del mercato – e nelle sue ombre – i tentativi inefficienti e inefficaci di forzare dirigisticamente le scelte degli operatori in contrasto con il quadro di convenienze entro cui essi si muovono. Una politica industriale consapevole perciò che, per poter orientare efficacemente il funzionamento dell’economia, deve saper tenere conto del modo in cui gli operatori rispondono all’intervento pubblico e del ruolo del mercato come meccanismo di verifica dell’efficacia e dell’efficienza delle misure adottate. In sintesi, una politica industriale market-oriented, ossia capace di promuovere lo sviluppo di un mercato che risponda in modo efficiente agli obiettivi che la società democraticamente organizzata si dà.

 

2 Regole di mercato e politica industriale

Il primo passo da fare è quello di liberarsi della »vulgata« per cui le liberalizzazioni e la riforma della regolazione, attuate in Italia come in gran parte dell’Unione Europea a partire dagli anni Novanta del Novecento, sarebbero state l’espressione del prevalere di una ideologia neo-liberista, cosicché per realizzare una politica industriale attiva sarebbe necessario rovesciare quella impostazione. La realtà è esattamente l’opposto di questa rappresentazione, che rischia oggi di riportare indietro l’orologio della politica economica in Italia come anche in altri Paesi europei.

Naturalmente, è vero che nelle riforme degli anni Novanta e dei primi anni Duemila vi erano aspetti di deregulation, riassumibili nell’attenzione giusta a ridurre al minimo indispensabile vincoli e ostacoli al dinamismo imprenditoriale. Ma mentre si liberava l’azione degli operatori da »lacci e lacciuoli« inutili, si procedeva al tempo stesso alla costruzione attiva delle regole per il corretto funzionamento dei mercati: regole ispirate ai principi di imparzialità, efficienza, stabilità in modo da contrastare le posizioni di monopolio e consentire a tutti di giocare ognuno la propria partita su un campo di gioco livellato (levelled playing field). Altro che laissez-faire: la politica di liberalizzazioni e riforma della regolazione è stata una vera e propria politica pubblica di promozione di mercati ben funzionanti e quindi promotori di efficienza e innovazione. 

Ma promozione della concorrenza e regolazione non può essere l’unica dimensione della politica di intervento sui mercati. E’ qui che vanno riscontrati gli errori compiuti negli anni di cui sto parlando, quando nel rompere con le forzature dirigistiche del passato si è finito per concentrare l’azione pubblica nella riforma delle regole e si è trascurata un’altra sua dimensione fondamentale: quella delle scelte che le autorità di governo sono chiamate a effettuare con riguardo all’allocazione delle risorse che intendono promuovere, tramite il bilancio pubblico, per il conseguimento di obiettivi di interesse generale. E’ questo il terreno su cui si colloca la politica industriale. 

Sono, quelle ora indicate, due dimensioni dell’intervento pubblico che, per riprendere la classificazione delle funzioni dello Stato proposta da Musgrave (allocativa, redistributiva, di stabilizzazione macroeconomica), appartengono entrambe alla funzione allocativa, volta a porre rimedio ai »fallimenti del mercato«. La differenza fondamentale sta nel fatto che la prima dimensione, quella delle politiche di regolazione e concorrenza, ha a che fare con la definizione, l’attuazione e l’enforcement di regole che sostengano l’efficiente funzionamento dei mercati e che quindi influenzano l’allocazione delle risorse solo in via indiretta, mentre la seconda dimensione consiste nell’effettuare scelte che incidono direttamente sull’allocazione delle risorse, in particolare tramite l’apporto di fondi di bilancio pubblico. Si pensi per esempio a due aspetti della politica industriale come la realizzazione di opere infrastrutturali o le politiche di incentivo volte a incorporare nel sistema di convenienze degli operatori obiettivi di interesse generale diversi da quelli che il mercato è spontaneamente in grado di processare (esternalità, investimenti a redditività differita nel tempo, innovazioni a più elevata rischiosità, etc.). 

E sono due dimensioni che si sostengono a vicenda. La politica industriale deve fare tesoro degli avanzamenti realizzati negli ultimi trent’anni in materia di concorrenza e regolazione dei mercati: le scelte di politica industriale possono dare i frutti desiderati in termini di attività produttive solide e durature solo se si collocano sul terreno delle corrette regole di mercato, non se pretendono di negarle. Ma anche la costruzione e l’aggiornamento del sistema di regole di mercato trae alimento dalla politica industriale: è la promozione delle grandi reti infrastrutturali che consente lo sviluppo della concorrenza nei servizi che le utilizzano e, più in generale, è lo sviluppo del tessuto produttivo che alimenta l’articolazione degli scambi su cui la regolazione si esercita. Stiamo parlando perciò di due anime complementari e ambedue essenziali dell’intervento pubblico nell’economia: quella che stabilisce le regole per il miglior funzionamento dei mercati e quella che, nel quadro di quelle stesse regole, traduce in convenienze per gli operatori le scelte collettive sull’allocazione delle risorse.

 

3 Gli strumenti della politica industriale

E veniamo così alla »cassetta degli attrezzi« della politica industriale, estraendone tre di particolare rilievo proprio nella situazione italiana attuale: progetti pubblici di investimento volti a costruire le condizioni di contesto per lo sviluppo delle attività produttive, incentivi che modifichino il quadro delle convenienze di mercato entro cui le imprese fanno le loro scelte, partecipazioni pubbliche nel capitale delle imprese volte a promuovere attività giudicate strategiche per gli obiettivi di politica industriale nazionali ed europei.

 

3.1 I progetti pubblici di investimento

E’ questo uno dei terreni su cui l’Italia è rimasta più indietro negli ultimi venti anni: non tanto e non solo per i vincoli di finanza pubblica resi stringenti dall’esigenza di contenere e ridurre un debito pubblico tra i più elevati in Europa, quanto ancor più per gli ostacoli che la normativa e la prassi amministrativa hanno frapposto alla realizzazione effettiva delle opere. 

Oggi, con i nuovi obiettivi di sviluppo posti dall’Unione Europea nell’ambito della transizione verde e digitale e ancor più con l’impulso di Next Generation EU, i temi della qualità della vita dei cittadini, della tutela ambientale, del riequilibrio territoriale portano con sé lo sviluppo di attività sempre più segnate da esternalità e quindi dal bisogno di orientamento da parte dei pubblici poteri: dagli investimenti in ricerca medica di base alla costituzione di centri di eccellenza per cure avanzate, dalla promozione della banda ultralarga alla realizzazione di investimenti nelle infrastrutture di trasporto e logistica, dal risanamento ambientale alla riqualificazione urbana e alla rigenerazione di ex aree industriali ora abbandonate. Sono investimenti fondamentali anche sul fronte della produttività di sistema, costruendo – come accennavo prima  – le condizioni di contesto necessarie allo sviluppo delle attività imprenditoriali in tutti i settori, dall’agricoltura, all’industria, ai servizi. 

Per conseguire gli obiettivi di interesse pubblico costituiti dall’efficienza (riduzione dei costi per la collettività) e dall’efficacia (aderenza ai bisogni) degli interventi, un ruolo molto importante spetta al partenariato pubblico-privato, dove le capacità imprenditoriali e le risorse finanziarie private vengono messe a disposizione del conseguimento degli obiettivi di interesse generale, senza venir meno alle proprie convenienze, anzi inserendole in un quadro di valorizzazione sistemica. Affinché il coinvolgimento dei soggetti privati – nelle infrastrutture e nei servizi in concessione o tramite finanza di progetto – possa dare i frutti desiderati è necessario che i soggetti pubblici responsabili della programmazione e della regolazione siano autorevoli per le competenze a loro disposizione e per i poteri loro conferiti. Insomma, per mettere a frutto i suoi vantaggi comparativi, il partenariato deve fare affidamento al tempo stesso su una forte autonomia e innovatività dei soggetti privati coinvolti e su una reale autorevolezza e forza delle pubbliche amministrazioni responsabili. 

E qui sono evidenti i due nodi principali da sciogliere in Italia per far riparire i progetti pubblici di investimento: la qualità delle pubbliche amministrazioni e la semplificazione delle procedure. 

Sul primo fronte, si deve essere consapevoli dell’impoverimento tecnico delle amministrazioni verificatosi negli ultimi venti anni: ricostruirle sarà un percorso non breve, che va iniziato subito e che nel frattempo richiede forme di supplenza che sblocchino subito la situazione. Serve una struttura di governance centrale snella che non pretenda, quindi, di sostituirsi alle amministrazioni esistenti, ma svolga una funzione di coordinamento, stimolo continuo all’esecuzione dei progetti e loro monitoraggio. 

Sul secondo fronte, sono urgenti semplificazioni puntuali delle singole componenti delle procedure (i grandi disegni di semplificazione complessiva non hanno fin qui ottnuto risultati): tempi vincolanti e meccanismi rapidi di superamento del dissenso (alias diritti di veto di singole amministrazioni) per le conferenze dei servizi, che vanno limitate alla sola fase dello studio di fattibilità di un progetto in modo da procedere poi spediti nella fase di progettazione esecutiva, di appalto, di realizzazione; eliminazione delle superfetazioni normative stile gold plating ambientale; limitazione ai soli casi di dolo della perseguibilità penale e contabile del funzionario pubblico responsabile di un progetto. 

Infine, per quanto riguarda la gestione delle procedure di appalto, il ricorso sempre più frequente a soggetti esterni alla PA, e in particolare a Invitalia, indica una strada naturale da perseguire con sistematicità.

 

3.2 Gli strumenti di incentivazione

In premessa, è opportuno ricordare che in base all’Indice di competitività elaborato dall’International Trade Center, l’Italia si colloca al primo o secondo posto della graduatoria internazionale in otto settori manifatturieri su quattordici, tra cui abbigliamento, tessile, cuoio, meccanica non elettronica, componenti elettronici, mezzi di trasporto e altri (come articoli in plastica, occhiali, gioielleria). Il grande problema è che questa capacità di innovazione e di competitività si concentra in una parte limitata del tessuto produttivo italiano. L’obiettivo fondamentale di una politica di incentivi deve essere allora quello di diffondere queste capacità a una più ampia quota di imprese e di settori così da ottenere una più elelvata dinamica della produttività di sistema.

Gli incentivi più efficaci, perché incidono sul quadro di convenienze entro il quale le imprese fanno le loro scelte di investimento, e più efficienti, perché tagliano in modo netto i tempi di implementazione saltando a pie’ pari qualsiasi intermediazione politico-burocratica, sono gli incentivi di valore generale ed automatico. 

Hanno queste caratteristiche due tipologie principali di incentivi. Quelli agli investimenti basati su un uso della leva fiscale per sostenere la dinamica prospettica della produttività, come gli incentivi sperimentati in Italia con successo nella passata legislatura per promuovere avanzamenti tecnologici – come l’iperammortamento – o localizzazioni geografiche – come il credito d’imposta Sud – o anche per innescare incrementi della dotazione di beni strumentali – come la Nuova Sabatini per le PMI. E gli incentivi di prezzo, come: il valore degli ETS, per ridurre le emissioni di gas climalteranti; o i voucher a sostegno della domanda di connessione, per accelerare la diffusione della banda ultralarga; o ancora, per promuovere l’innovazione farmaceutica, la regolazione dei prezzi dei nuovi farmaci ammessi al rimborso da parte del SSN. 

In sintesi, serve un uso sapiente degli incentivi come strumento per modificare in modo semplice e comprensibile le convenienze di mercato in forme generali e imparziali, entro cui le imprese possano fare le loro scelte senza interferenze estranee alla logica imprenditoriale. Il quadro degli incentivi deve essere mirato a un definitivo innalzamento del livello, della qualità e della diffusione degli investimenti nel tessuto produttivo del Paese. 

Questa preferenza per strumenti generali e automatici non esclude il ricorso anche a contributi per specifici investimenti: lo si è sperimentato in Italia con i cosiddetti Contratti di sviluppo con cui, nel rispetto della normativa europea sugli aiuti di Stato, si è proceduto a sostenere gli investimenti di singole imprese per realizzare piani industriali concordati con l’autorità pubblica e finalizzati a rilanciare attività in crisi o a sviluppare nuove esperienze di frontiera.

 

3.3 La partecipazione pubblica nel capitale d'impresa

Le difficoltà che la crisi sta determinando nella gestione di cassa, nella capacità di autofinanziamento e nei valori di Borsa di molte imprese porteranno, e stanno portando in molti Paesi europei, a rilevanti interventi di ricapitalizzazione in cui saranno direttamente o indirettamente coinvolte istituzioni pubbliche. Il problema che si pone in Italia è quello di fare di questa aumentata presenza pubblica nel capitale delle imprese l’occasione per promuovere, coinvolgendo e aggregando risorse finanziarie private, attività che siano strategiche per gli obiettivi di politica industriale nazionali, per esempio attività a forte contenuto di innovazione e con ricadute di sistema e che spostino in avanti la frontiera della produttività. Vanno evitati gli errori di »socializzazione delle perdite« che portarono alla crisi delle Partecipazioni Statali negli anni Ottanta e Novanta. 

Le determinanti della insufficiente dinamica della produttività sembrano riconducibili a tre fattori immediati: la limitata presenza di grandi imprese italiane nei settori di punta dell’innovazione internazionale; le inadeguate dimensioni di molte imprese; la scarsa diffusione di capacità innovativa e di trasferimento tecnologico, anche nell’adozione di strumenti digitali e di intelligenza artificiale, presso una parte ancora ampia del tessuto produttivo. 

La partecipazione pubblica nel capitale delle imprese deve aiutare ad affrontare questi tre problemi. Il primo investe le scelte strategiche delle maggiori imprese italiane: qui la partecipazione pubblica deve essere fattore che spinge a investimenti nelle attività a maggior tasso di innovazione, sviluppando ulteriormente alcune esperienze fatte negli ultimi anni nella gestione delle maggiori società a partecipazione pubblica e configurando di conseguenza la strategia finanziaria di CDP Equity e di Fondo Strategico Italiano verso investimenti, in sinergia con soggetti finanziari e industriali privati, in imprese di rilievo strategico. Il secondo problema sollecita un intervento finalizzato a sostenere la crescita dimensionale delle medie imprese italiane attraverso apporti di equity che ne sostengano la capitalizzazione: dovrebbe essere questo l’obiettivo chiave di fondi come il Fondo Italiano Investimenti e il Fondo per la crescita dimensionale delle PMI meridionali. Il terzo problema va affrontato dando attuazione a quel Fondo Nazionale Innovazione, costituito presso CDP, che dovrebbe fornire finanza per l’innovazione attraverso operazioni di venture capital, magari prevedendo però anche suoi interventi complementari nelle aziende sostenute dai Fondi citati in precedenza. 

Si tratta però di chiarire bene quali siano le condizioni necessarie affinché la partecipazione pubblica nelle imprese svolga una reale funzione di promozione dell’efficienza e dello sviluppo e non di »socializzazione delle perdite«. La prima decisiva acquisizione di principio necessaria consiste nel guardare alle società a partecipazione pubblica non come a un mero strumento della politica ma all’opposto come a soggetti imprenditoriali che, in quanto tali, hanno e devono avere la propria autonoma strategia industriale, essere quindi dotati di forti competenze manageriali e tecniche ed essere sottoposti alla verifica del mercato. La degenerazione del vecchio sistema delle partecipazioni statali cominciò quando proprio l’autonomia manageriale che aveva consentito i successi dei primi venti anni del Dopoguerra venne compromessa da scelte politiche che imponevano »oneri impropri« alle imprese e penetranti condizionamenti sul management da parte della direzione politica. Oggi il contesto è mutato e i principi europei di parità di trattamento tra impresa pubblica e impresa privata, di comune assoggettamento alle regole della concorrenza e alla normativa sugli aiuti di Stato, insieme con l’affermarsi di Autorità antitrust e di Autorità indipendenti di regolazione negli Stati membri e in particolare – con un invidiabile grado, finora, di eccellenza tecnica – proprio in Italia, costituiscono presidi decisivi per non ripetere l’esito del passato.

Ma queste condizioni per così dire »esterne« all’impresa hanno bisogno di essere accompagnate – in particolare nei rapporti tra azionista pubblico e management – da regole di governance coerenti: statuti delle società che pongano in essere un diaframma istituzionale che presieda a un corretto rapporto tra potere di indirizzo dell’azionista pubblico e strategia industriale di stretta competenza del management; partecipazione al capitale di azionisti privati e quotazione in Borsa che accompagnino la disciplina di mercato ex post, quella cioè sul versante degli sbocchi per i prodotti, con la disciplina ex ante sul mercato dei capitali. 

È urgente quindi costruire sul piano delle norme e realizzare nella prassi un fondamento solido all’operare dell’impresa a partecipazione pubblica non come mero strumento della politica ma come soggetto che traduce obiettivi di valore generale in comportamenti di impresa sottoposti alla verifica di mercato.

4. Una breve conclusione

E’ un bene che negli ultimi anni, e oggi in modo particolare a seguito della drammatica e penosa crisi indotta dalla pandemia di Covid-19, sia riemersa a livello di Unione Europea e dei singoli Stati membri l’esigenza di una politica industriale: è legittimo e doveroso che l’intervento pubblico nell’economia cerchi di tradurre le scelte collettive elaborate attraverso le istituzioni democratiche in convenienze di mercato che orientino l’allocazione delle risorse che il mercato stesso, attraverso l’agire degli operatori, realizza. 

Al tempo stesso, però, in questa riscoperta della politica industriale non dobbiamo dimenticare la lezione che ci viene dalla crisi dell’intervento pubblico a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del ‘900. Proprio l’esperienza italiana ha molto da dirci a questo riguardo: la deriva che in quel periodo portò a programmare investimenti fuori mercato e a piegare le partecipazioni statali a una funzione impropria di ammortizzatore sociale contribuì alla crisi della finanza pubblica e all’indebolimento proprio dell’intervento pubblico nella sua effettiva capacità di guida dei processi economici.

Oggi possiamo e dobbiamo fare tesoro degli avanzamenti degli ultimi trent’anni in materia di concorrenza e regolazione dei mercati collocando le scelte di politica industriale sul terreno delle corrette regole di mercato, che d’altra parte sono a loro volta definite dalle autorità pubbliche. Ed è in questa logica che vanno sviluppati e utilizzati i tre strumenti principali che fanno parte della »cassetta degli attrezzi« della politica industriale: progetti pubblici di investimento, incentivi che orientino il quadro di convenienze entro cui le imprese fanno le loro scelte, partecipazioni pubbliche nel capitale delle imprese per promuovere innovazione e competitività di sistema. 

Non ricadere nelle sirene illusorie del dirigismo e saper affermare gli obiettivi di interesse generale come guida per il mercato: questa la sfida che sta di fronte alla politica economica italiana ed europea.

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