14 maggio 2020   Articoli

Alla fine nessuno potrà fare da solo

Amedeo Lepore - Il Mattino

Nel passaggio dall’emergenza a una prima fase di ripresa, oltre a una magmatica serie di problemi, affiora paradossalmente un duplice valore del fattore tempo. Osservando la vita quotidiana e le persone, il tempo di quest’epoca del virus sembra notevolmente rallentato dalle regole di contenimento sociale: dalle comunicazioni con i familiari, alle operazioni di uscita e rientro in casa, alle file al supermercato, all’attesa per i mezzi di trasporto, fino alle precauzioni e ai controlli per la sicurezza. Sono tutti elementi che concorrono a uno svolgimento della giornata più dilatato. Perfino le passeggiate hanno assunto un ritmo diverso da qualche settimana fa, prima dell’inizio della pandemia. Al contrario, i tempi di diffusione e regressione del morbo, i mutamenti di scenario economico e sociale, il progresso della ricerca e delle tecnologie sono repentini e richiederebbero un’analoga capacità di adattamento e di reazione da parte delle istituzioni. 

A livello internazionale, basterebbe guardare a Cina e Stati Uniti, che si sono scambiati le parti di Paese più colpito e Paese in ripresa, a causa di uno sfasamento nella trasmissione dell’epidemia. La crisi, come il passaggio del sole e della luna dall’Est all’Ovest, ha mostrato tutto il suo carattere simmetrico, senza far sconti a nessuno. Eppure, i suoi effetti potranno essere asimmetrici, per la diversa portata dei rimedi, per le specifiche modalità e i tempi di risposta, oltre che per le caratteristiche di territori e settori economici distinti tra loro. La pandemia, come ha notato il consigliere economico della Banca Mondiale Célestin Monga, ha mostrato tutta la fragilità delle catene del valore esistenti, ma, nello stesso momento, ha sancito l’insostituibilità di queste interdipendenze, che vanno dal livello aziendale fino a quello globale, rappresentando i due terzi del commercio planetario. 

Si avverte, quindi, la necessità di una risposta forte e unitaria alla crisi e alle sue ricadute di fondo, che hanno già minato il sistema delle forniture internazionali e indebolito gravemente il sistema produttivo mondiale. Non basta il tentativo di rifugiarsi nella produzione interna dei beni che attualmente mancano – una soluzione di corto respiro e dai costi elevati, che porterebbe a un “micro-nazionalismo” economico –, ma, grazie allo sviluppo dei sistemi della logistica e dell’industria personalizzata di massa, si possono costruire nuove catene di offerta e di approvvigionamento in diverse aree del mondo, mitigando i rischi, creando valore in tutti gli stadi del processo e contribuendo ad arricchire anche i produttori dei Paesi più deboli della filiera. 

Da questa parte del mondo, il Sud globale, anche secondo Bill Gates, verranno le principali incognite della ripresa. Tuttavia, i caratteri della nuova normalità appaiono ancora indistinti o soffocati dalla rincorsa alle più disparate esigenze immediate. Bisogna rapidamente voltare pagina, affrontando il dramma strutturale che si staglia sempre più all’orizzonte e cogliendo, come lo chiama Hernando de Soto, il “potenziale positivo” del coronavirus. D’altro canto, per l’economista Diane Coyle, questa crisi ha decretato la fine dell’individualismo a causa della sua natura e dell’essenza stessa dell’economia digitale, che ha aumentato a dismisura il grado di interdipendenza, intrecciando ancor più le sorti delle persone, dei gruppi sociali e degli Stati. 

Mai come oggi è il contesto a dare valore all’esperienza e ai dati individuali. Se molti temi, come i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità e l’incertezza delle prospettive geopolitiche, richiedono una consapevolezza e un’azione comuni, è stata la pandemia a rivelare l’indispensabile integrazione delle attività economiche e la natura inscindibilmente connessa della vita moderna. Per questi motivi, per compiere una ricostruzione effettiva, l’Italia non può fare a meno del Sud, la Germania dell’Italia, gli Stati Uniti dell’Europa e della Cina e viceversa. Non c’è una strada diversa da questa e il nostro Paese deve darsi una scossa, ponendo al centro delle politiche di ripresa il Mezzogiorno, il suo global South, e l’impresa, ovvero la crescita economica. 

È stato giusto sostenere i soggetti più colpiti e il reddito, facendo leva sulle risorse pubbliche: in questo modo si è acquistato tempo. Ora, però, bisogna tornare a produrre e investire, altrimenti la perdita di ricchezza e di occupazione sarà incolmabile e il debito rappresenterà un peso insostenibile. Per farlo, è necessario scongiurare ogni dispersione di risorse, restando intrappolati nelle sabbie mobili dell’assistenzialismo, che rende inutile il tempo acquisito. 

Perciò, trascorsa la fase più acuta dell’emergenza, bisogna concentrare rapidamente gli sforzi in interventi produttivi di notevoli dimensioni, in grado di realizzare una “grande spinta”, che, come ha teorizzato Paul Rosenstein-Rodan al termine della seconda guerra mondiale, sono gli unici capaci di rifuggire dall’illusione dell’autosufficienza e di dare possibilità di successo a un programma di sviluppo.

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