01 settembre 2020   Articoli

Dai liberisti agli statalisti il rischio della sbornia

Amedeo Lepore - Il Mattino

Il dibattito aperto sulle prospettive di rilancio economico sta affrontando un tema fondamentale come quello della forma e della gestione delle strategie da mettere in campo dopo il coronavirus. Nell’epoca digitale la separazione tra mezzo e messaggio, tra contenitore e contenuto, come presagiva Marshall McLuhan, è caduta definitivamente e, quindi, non si può pensare di discernere le politiche dal loro esercizio, l’intervento dello Stato e dei privati, ad esempio, dalle priorità per l’attuazione del Next Generation EU. 

Le barriere economiche alla crescita successiva alla pandemia stanno aumentando e, come scrive Dambisa Moyo, “sarà compito dello Stato guidare l’economia verso la ripresa poiché il contributo del settore privato al PIL si ridurrà”, senza tuttavia fare di questa condizione transitoria un’illusoria panacea per il futuro. Parliamoci chiaro, il Washington Consensus, ovvero la scelta prevalsa nell’economia degli ultimi decenni di rimuovere ogni forma di intervento pubblico e di lasciare indiscriminatamente mano libera alle forze della domanda e dell’offerta, alla regolazione “automatica” dei prezzi e all’individualismo più esasperato, ha condotto a un’età di crisi, dalla quale il mondo stentava a rialzarsi anche prima del Covid-19. 

Oggi emergono riflessioni utili e innovative di chi tende a cambiare il segno delle politiche economiche. Ma si manifestano anche testimonianze di pentiti di quella stagione, che ricordano la famosa espressione attribuita a Richard Nixon “ora siamo tutti keynesiani”, e interventi di nostalgici del passato, che tendono a riproporre vecchi modelli di iniziativa pubblica pensando a una semplice rivincita. Questo accade sia sul versante economico che su quello politico, specialmente in Italia. Sul piano politico si avverte il rischio di alimentare un’inconcludente idea di raccolta di tutto quello che è contro il sovranismo, senza distinzioni, e di tacciare di neoliberismo anche le tragiche esperienze dirigiste degli Stati più illiberali. 

Si tratta di un’impostazione di corto respiro, che si ammanta di un tentativo di congiungere socialismo e liberalismo, ma che corre il pericolo di muoversi più nella composizione di suggestioni del passato che nella proposta di una teoria per il futuro. Dal punto di vista economico, la congettura che le risorse europee possano essere il carpe diem di un Paese desideroso di tornare a una presunta normalità, fatta di disponibilità illimitate, porta direttamente verso quel “debito cattivo” che condannerebbe l’Italia a una condizione di irrimediabile implosione.

Da più parti si sono levati allarmi per la mancanza di una rotta precisa all’azione dello Stato e per il pericolo di uno sperpero di risorse in attività di carattere assistenziale, in una logica puramente risarcitoria. Le politiche di governo richiedono, al contrario, scelte di priorità rigorose e chiare. Alla sbornia neoliberista non bisogna rispondere con un’ubriacatura statalista, ma con un nuovo paradigma di riferimento. Secondo Andrés Velasco, il punto di partenza è la capacità dei governi di “fornire una maggiore e migliore assicurazione sociale contro gli shock”, sapendo cogliere la differenza tra gli impatti idiosincratici (che colpiscono solo alcuni) e quelli aggregati (che ledono tutti indistintamente). 

Tuttavia, anche se persistesse una congiuntura favorevole di tassi di interesse comunque inferiori a quelli di crescita sfruttando una combinazione di fattori (invecchiamento della popolazione, lenta crescita della produttività, debole domanda di investimenti e carenza generale di titoli sicuri) che non è durevole in eterno, non si può pensare a un debito che non si ripaghi. E la principale fonte di creazione di ricchezza è la produzione industriale, che richiede decisioni risolute di medio e lungo periodo, andando ben oltre lo schema del salvataggio o della mera presenza pubblica. 

Pasquale Saraceno, esponente di una convergenza originale tra diverse culture (sociale, manageriale e riformista), sosteneva che “la struttura e la evoluzione del mercato nel quale le nuove imprese si troveranno ad agire sono determinate dalla realizzazione, programmaticamente perseguita dallo Stato, di una certa linea di sviluppo”, dando impulso a un maggiore volume di attività privata. Il nuovo paradigma deve cominciare a delinearsi in un inedito intreccio tra fattore umano e imprese, politiche pubbliche e scelte di mercato, fondate sugli obiettivi tracciati a livello europeo dell’innovazione digitale e della transizione ambientale. 

Il lavoro di selezione va fatto evitando di partire da centinaia di progetti esistenti, ma cercando di dare vita a un’elaborazione unitaria e a un’unica grande strategia. In questo modo, si creerebbero le condizioni per spendere bene e in tempo l’enorme messe di risorse disponibili. Non si possono attendere, quasi in maniera salvifica, massicci investimenti e una moderata inflazione: il compito dell’intervento pubblico è di realizzare le riforme e accrescere la produttività, guardando ai soggetti reali e all’avvenire dell’Italia.

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