26 ottobre 2021   Articoli

Spazi e tempi per la costruzione di un nuovo modello di sviluppo

Amedeo Lepore - Speciale Convegno Giovani Imprenditori 2021

Il 36° Convegno dei Giovani Imprenditori è dedicato a un argomento particolarmente caro a chi si occupa di storia economica, ponendo al centro della riflessione e del confronto di questi giorni la dimensione dello spazio che, insieme a quella del tempo, caratterizza un’impostazione diacronica e diatopica. È la visione di chi guarda al presente e al futuro con la propensione all’interpretazione dei processi economici e alla prefigurazione dei loro possibili sbocchi, che si ritrova in un’esplorazione concreta e appassionata del passato. Secondo Fernand Braudel, che ha introdotto la categoria geografica nella metodologia dell’analisi storico economica: “La storia non è altro che una continua serie di interrogativi rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità – nonché delle inquietudini e delle angosce – del presente che ci circonda e ci assedia. […] Essere stati è una condizione per essere”.

L’evoluzione degli spazi si esprime in una metafora che individua la riduzione delle distanze come metro della vita odierna, modificando perfino la percezione del tempo. In realtà, più che una improbabile contrazione delle distanze, le tecnologie moderne permettono una sempre più netta diminuzione dei tempi reali di spostamento e una drastica compressione degli spazi virtuali necessari per connettersi simultaneamente a livello globale. Questo rivolgimento nell’ordine delle cose, sia in senso spaziale che temporale, sta creando nuovi parametri per la proliferazione dei non-luoghi, l’affermazione delle ricchezze immateriali e la diffusione dell’economia della conoscenza. Inoltre, il mutamento tecnologico più recente sta determinando un’accelerazione nelle condizioni di produttività e competitività, unita a una nuova centralità dell’agire imprenditoriale, che fa parte di un più ampio fenomeno di “umanesimo digitale”, una visuale verso la quale dirigere l’attenzione delle politiche industriali e delle strategie aziendali.

Nell’attuale dibattito internazionale sulle prospettive dell’economia, comincia a emergere, anche per le sofferenze dei mercati finanziari, un tema finora sottovalutato. La stagflazione sembrava, infatti, un pallido ricordo del passato, specialmente nelle forme assunte negli anni Settanta per effetto delle crisi petrolifere e dell’interruzione dello sviluppo propulsivo dei due decenni precedenti. La frattura fu netta, perché vennero duramente colpiti i Paesi impreparati a un’innovazione di fondo e fu inferto un colpo inaspettato alla teoria keynesiana. L’inflazione non era affatto moderata e non accompagnava la crescita, ma si abbinava, in un cocktail micidiale, alla stagnazione economica. Da allora in poi, le strategie espansive per risollevare l’economia globale si sono sempre più rarefatte e il mondo si è incamminato in una quasi ininterrotta “età di crisi”, secondo l’espressione coniata da Antonio Di Vittorio.

La ripresa dopo la pandemia deriva in parte da un rimbalzo naturale, dovuto alla riapertura delle attività economiche, e in parte da una crescita vera, sorretta da un clima economico e sociale del tutto nuovo, simile a quello del dopoguerra. Eppure, Nouriel Roubini, soprannominato “Dr. Doom” (Dottor Destino) per essere stato tra i pochi a prevedere le crisi, ha esaminato il rischio di una combinazione tra uno stimolo eccessivo della domanda aggregata e una serie di shock negativi dell’offerta a medio termine, che potrebbe portare a una ricomparsa in grande stile del fenomeno stagflattivo. Solo che, in questo caso, un evento del genere non segnerebbe il passaggio da un ciclo economico espansivo a uno recessivo, ma da una fase di iniziale risalita a una di contrazione della crescita.

Nell’articolo dal titolo “Riccioli d’oro sta morendo”, Roubini, richiamando un’antica favola, ha indicato quattro prospettive plausibili dopo l’impennata dei prezzi. Nello scenario dorato (Goldilocks), previsto da molti analisti di mercato e politici, l’economia globale aumenterebbe notevolmente e l’inflazione manterrebbe un andamento tenue, corrispondente all’obiettivo del 2%: la lieve stagflazione dipenderebbe dalle varianti pandemiche e le restrizioni negli approvvigionamenti sarebbero temporanee. Nel secondo scenario, quello da lui pronosticato, si verificherebbe un surriscaldamento dell’economia, con una crescita resa possibile solo dal progressivo superamento delle strozzature dell’offerta: l’inflazione si attesterebbe su livelli elevati, per motivi non effimeri. Nel terzo scenario, si assisterebbe a una stagflazione prolungata, provocata da una forte spinta inflazionistica e da un andamento economico molto fiacco. Nel quarto scenario, prevarrebbe un rallentamento della ripresa, con un indebolimento durevole della domanda aggregata e un’inflazione più bassa.

In queste ipotesi, il “surriscaldamento” comporterebbe l’inasprirsi di due condizioni estremamente sfavorevoli per l’azione delle Banche Centrali. Infatti, una pericolosa “trappola del debito” (pubblico e privato) e un’inflazione costantemente al di sopra dell’obiettivo potrebbero portare a una completa stagflazione. Nei mesi scorsi, anche Kenneth Rogoff aveva preventivato un ritorno ai problemi strutturali degli anni Settanta. Ora, a causa delle limitazioni di forniture, della carenza di manodopera, dei blocchi di diverse filiere produttive e dei costi di conversione della transizione energetica, il timore di un aumento dei prezzi persistente si sta insinuando tra i vertici delle istituzioni finanziarie internazionali.

Gli Stati Uniti e la Cina stanno sperimentando per primi queste incognite. Negli Stati Uniti, il boom di Wall Street non è stato tutto oro e le recenti oscillazioni dei mercati, con segni evidenti di turbolenza, stanno a dimostrarlo. Inoltre, nonostante un’inflazione a oltre il 5%, il pericolo di innescare il detonatore di un crollo di valori di mercato sproporzionati ha indotto la Federal Reserve a uno slittamento dell’intervento sui tassi d’interesse al prossimo anno, rivelando un’apprensione per la solidità della ripresa. Non a caso, il Fondo Monetario Internazionale ha ammonito sull’esigenza di riforme sostanziali per rafforzare i fondi di investimento e prevenire nuove scosse sui mercati finanziari.

Il sintomo più preoccupante per l’economia, però, viene dalla Cina. Alla crisi demografica si aggiunge un debito privo di controllo. Huarong, la bad bank statale chiamata a gestire i crediti problematici dei conglomerati finanziari, ha subito perdite per 13,5 miliardi di euro nel 2020, richiedendo un’ardua opera di salvataggio pubblico. Altre criticità si sono affacciate sulla finanza cinese, come quella del gruppo Baoneng, con esposizioni per 26,2 miliardi di euro. Ma l’esempio a rapido rischio di default è quello del colosso immobiliare Evergrande, con passività per circa 260 miliardi di euro, una svalutazione delle azioni del 70% in un anno e una caduta dei profitti di quasi il 30%. L’unica analogia con la crisi dei mutui subprime, evocata da George Soros, potrebbe essere l’effetto domino sul sistema immobiliare e finanziario interno. Il governo cinese è abituato a ballare sull’indebitamento e a compiere interventi pubblici spericolati, ma il gioco si è fatto troppo grosso e sta danneggiando seriamente l’avanzata del Dragone.

Altra cosa è l’improbabile propagazione di questa turbolenza al resto del mondo, nonostante la persistenza di componenti generali di forte incertezza e instabilità. Infatti, la nuova fase della globalizzazione, che si presenta come un arcipelago di realtà geopolitiche, di strutture economiche e di andamenti della crescita diversificati, spinge il mondo contemporaneo verso la soluzione dei suoi maggiori problemi di salvaguardia e di sviluppo in termini di multilateralismo e di governance globale. Infatti, solo sfruttando l’accumulazione delle enormi disponibilità di dotazioni di ricerca e scientifiche, di tecnologie innovative e conoscenza analitica, solo se i governi mondiali e le principali istituzioni internazionali sapranno svolgere bene i propri compiti all’interno della grande trasformazione in corso, si potrà prefigurare, anziché la ripetizione di catastrofi, una nuova età dell’oro.

L’Europa, nell’immediato, si trova ancora in uno stato di relativa reflazione, ma le tensioni sui prezzi che si avvertono in Germania potrebbero preludere a un’accentuazione del fenomeno nell’intero continente. Per non parlare delle aree meno avanzate, per le quali la minaccia della stagflazione può essere rovinosa. Tuttavia, i poderosi investimenti innescati con i programmi di ripresa possono contribuire, man mano che assumono corpo, a lenire le preoccupazioni dei mercati per questa crisi inedita sul versante dell’offerta. Perciò, può darsi che per questa fase sia più calzante il paragone con il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, anziché con gli anni Settanta. Allora, dopo un principio di inflazione nei territori anglosassoni, vi fu una rapida inversione di tendenza e la situazione si normalizzò, dando avvio all’epoca di più rigoglioso sviluppo del Novecento. Certo è che oggi le autorità monetarie devono camminare sul filo, misurando bene l’applicazione dei loro strumenti e sperando che l’economia reale dei produttori riesca a sostenere un incremento stabile del reddito, dell’efficienza e dell’occupazione.

Più complessivamente, le vicende di oltre sette decenni fa – in un contesto di distruzione per nulla creatrice e al cospetto, però, di una spinta del tutto originale, rappresentata dagli accordi per una riconfigurazione del sistema monetario e degli scambi internazionali, dalle nuove organizzazioni economiche mondiali sorte a Bretton Woods e da una strategia di collaborazione e di crescita inaugurata dai promotori dello scenario di pace e di ricostruzione seguito al conflitto bellico – possono indicare una strada già percorsa per la ripresa. L’Italia, in particolare, fu artefice di uno sviluppo senza precedenti, perciò considerato un vero e proprio “miracolo economico”. Ma di miracolo non si trattò, fondandosi soprattutto sul desiderio di rilanciare l’Italia e sulle capacità realizzative degli italiani, delle forze sociali e produttive del Paese, di una classe dirigente all’altezza delle sue responsabilità e orientata alla costruzione di una prospettiva europea.

Nell’epoca della golden age, si verificò una triplice convergenza, di cui l’Italia fu tra i principali attori. Da un lato, l’Europa progredì a un ritmo di crescita più intenso degli Stati Uniti, riprendendo un ruolo centrale sulla ribalta mondiale, grazie anche all’avvio di una comunità e di un mercato comuni, visti come i primi tasselli di un processo di integrazione più ampio e promettente. Dall’altro, l’Italia fu in grado di convergere verso i Paesi europei più avanzati, proponendosi come potenza industriale di primo piano man mano che rafforzava nuove forme di intervento pubblico, volte alla costruzione di condizioni di impresa e produzione competitive, che si prefiggevano di occupare sempre più estesamente il mercato nazionale e quelli esteri. Infine, il Mezzogiorno fu protagonista dell’innovazione di maggiore portata, con un catching up vigoroso, che consentì di avvicinare le due parti dell’Italia nel progressivo riconoscimento dei loro reciproci interessi e nel compimento di un tragitto di industrializzazione finalmente organico. Il ventennio tra gli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta, infatti, è stato l’unico, durante tutta la storia unitaria del Paese, nel quale si è verificata una riduzione consistente del divario tra il Nord e il Sud.

L’attuazione coerente del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è la conditio sine qua non per affrontare i problemi esistenti con uno spirito, una dedizione e un’intraprendenza analoghi a quelli degli anni immediatamente successivi alla guerra. I contenuti e gli strumenti della politica nazionale ed europea incarnata dal Next Generation EU non sono e non possono essere gli stessi di quell’epoca fondativa. Nondimeno, la stretta connessione tra un processo di riforme ineludibili e il dispiegamento di massicci investimenti a sostegno della transizione ecologica, dell’innovazione digitale e dello sviluppo del Mezzogiorno può favorire una risalita prolungata e una metamorfosi di fondo del nostro Paese. La sfida impegnativa da qui al 2026 non è semplicemente rivolta alla spesa di risorse ingenti, frutto, peraltro, di una coraggiosa strategia imperniata sull’emissione di titoli del debito pubblico da parte dell’Unione Europea, ma riguarda la capacità del nostro sistema di promuovere progetti di qualità, raccordare l’azione delle istituzioni centrali con quella delle amministrazioni regionali e locali, elevare l’attitudine a procedere con efficacia e tempestività nelle attività operative connesse alla realizzazione del PNRR.

Del resto, il visibile aumento del grado di credibilità internazionale dell’Italia e il suo passaggio da fanalino di coda dell’UE a protagonista della fase di ripartenza a livello continentale non sono fatti casuali. L’autorevolezza e la concretezza di Mario Draghi che, dopo i successi nelle politiche monetarie espansive a livello europeo, si è dedicato all’iniziativa di riassetto e rilancio del Paese, sono il riferimento di un vasto arco di soggetti istituzionali, economici e sociali in grado di scongiurare la prevalenza di una logica di breve periodo e di far seguire al rimbalzo di questi mesi una prospettiva di crescita strutturale. Per questa ragione, l’idea riproposta dal Presidente del Consiglio all’ultima assemblea di Confindustria di un Patto per l’Italia è di grande valore, se adeguatamente sostenuta, rappresentando un segnale per una chiamata a raccolta delle migliori energie nazionali e, soprattutto, un’opportunità per la costruzione di un futuro moderno e produttivo del Paese, basato sulla creazione di inediti spazi di progresso per le imprese, i lavoratori e i giovani.

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