16 luglio 2020   Articoli

Il contrasto alla povertà

Giuseppe Coco e Vito Peragine - Corriere del Mezzogiorno

Dopo una serie di misure che hanno di fatto congelato l’economia del nostro paese e una spesa considerevole in misure emergenziali e temporanee di welfare, è ora urgente porsi il problema di come riformare il welfare a regime, con una attenzione particolare agli effetti nel Mezzogiorno. Anche perché tutti gli scenari di medio periodo prevedono un aumento sensibile della povertà e delle disuguaglianze, tra individui e tra regioni.

E allora è urgente ripensare gli strumenti esistenti. Il problema più difficile da affrontare è sicuramente quello del reddito di cittadinanza (RdC). Il RdC è stato utile. Entrare nella crisi con una misura di welfare universale consistente ci ha preservato da conseguenze più gravi. Ma per conservarlo va profondamente riformato. Anche alla luce delle esperienze regionali, tra le quali il Reddito di Dignità realizzato in Puglia, che negli ultimi anni hanno anticipato e poi affiancato le misure nazionali.

Così com’è , il RdC presenta molti limiti.  La sua natura mista di strumento contro la povertà e di politica attiva del lavoro, nata per sedare la retorica dei ‘fannulloni’, ne ha pregiudicato l’efficacia e l’utilità. In generale l’enfasi sul funzionamento del mercato del lavoro come problema cardine del disegno del RdC è stata esagerata. Nel Mezzogiorno in particolare la bassa occupazione ha delle cause totalmente diverse: bassa produttività, scarsa qualificazione della forza lavoro, assenza di servizi per le donne lavoratrici, decenni di bassi investimenti pubblici e privati. Non era l’assenza dei navigator il problema.

In primo luogo va quindi superata ogni ambiguità: si tratta di una politica di contrasto alla povertà. Questo non significa che la misura non possa e non debba contenere un percorso di attivazione. In Puglia, ad esempio, il Reddito di Dignità prevede che il beneficio economico sia condizionato all’accettazione di un percorso di attivazione che viene definito anche in base alle caratteristiche del richiedente: un tirocinio formativo presso imprese o presso una pubblica amministrazione, ovvero un lavoro di comunità, ovvero ancora, un’attività di care giver. La previsione di un percorso di attivazione può contribuire alla occupabilità dei beneficiari nel medio lungo periodo e può contribuire a selezionare i beneficiari realmente bisognosi, riducendo i casi di lavoratori in nero.

In secondo luogo il trasferimento monetario deve essere legato ad una presa in carico complessiva del nucleo familiare attraverso il sistema dei servizi. Tipicamente si tratta di nuclei familiari multiproblematici, che necessitano di una pluralità di risposte da parte dei servizi sociali. Per gli anziani per esempio, servizi alla persona e assistenza. Per le famiglie servizi di assistenza educativa per i minori e formazione per gli adulti. Benefici che creano occupazione di buona qualità, scoraggiano un uso strumentale o illegale del RdC e dovrebbero essere mantenuti in caso di impiego. Per questa ragione, è opportuno che la misura sia gestita dai servizi sociali comunali, perché è li che ci sono le competenze e le esperienze necessarie. E infatti in tutte le regioni in cui misure analoghe sono state sperimentate, la responsabilità della gestione è stata affidata ai Comuni.

Infine, l’ammontare del beneficio deve essere equo ma congruo. In particolare non essere disincentivante, a fronte di un mercato del lavoro che in alcuni territori presenta salari estremamente contenuti, talvolta inferiori alle somme del RdC. Da questo punto di vista deve tornare chiara la natura di reddito di ultima istanza del reddito, anche per tagliare le unghie a fenomeni di opportunismo, senza necessariamente ricorrere a un controllo poliziesco della misura. Alcuni dei benefici del reddito possono eventualmente trasformati in servizi come detto sopra. In ultima analisi si tratta di abbandonare una volta tanto l’ossessione per il trasferimento monetario.

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