19 gennaio 2021

È una principessa vestita da popolana

Viola Ardone - La Stampa

C’erano tre sorelle: la bella, la grande e la segreta. Capri, la bella, aveva i colori dello smeraldo disseminati tra le acque e quelli dell’avorio nelle rocce precipitate a strapiombo sul mare. Ischia, la grande, aveva verdi distese, terre fertilissime e acque termali dai poteri taumaturgici. Procida, la segreta, si nascondeva schiva agli occhi dei più e mai si vantava dei suoi tesori.

Ma ora Procida, un tempo considerata la cenerentola delle isole dell’arcipelago partenopeo, sarà costretta a svelare qualcuno dei suoi misteri di bellezza a chi vorrà scoprirli rispettando la genuina ritrosia dei suoi abitanti e la complicata architettura delle sue stradine costruite a misura di un’epoca che non c’è più. Bisognerà camminare in fila indiana, radente il muro, per scoprire l’isola di Arturo narrata da Elsa Morante nel suo libro più dolce, tendere l’orecchio per ascoltare le parole del mare, proprio come il postino interpretato da Massimo Troisi nell’ultimo film che lo ha visto protagonista, indossare scarpe comode per risalire fino alla Terra murata, il borgo medievale a picco sul mare dominato dal cinquecentesco Castello d’Avalos e trasformato poi in carcere nell’Ottocento e attivo fino al 1988. Sarà un esercizio di amore e di pazienza, scoprire Procida e ci si dovrà affidare a tutti e cinque i sensi. Alla vista, prima di tutto, quando ci si troverà faccia a faccia con la tavolozza dei colori della Marina della Corricella: un abbraccio di casette dalle sfumature pastello dal cromatismo perfetto, pronto ad accogliere il visitatore che proviene dal mare. Non servirà fare una foto, sia ben chiaro, perché quelle tonalità, delicatissime e sapientemente orchestrate, sono pronte a mutare ad ogni raggio di sole, ad ogni ombra della sera, come se fossero vivi pensieri di una mente sensibilissima.

L’udito, poi, per accogliere i lunghi silenzi del crepuscolo e il vociare incessante delle onde che battono il tempo della giornata come rintocchi di campana: più vivaci al mattino, più lunghi all’imbrunire. Il gusto deve essere affinato per apprezzare i piatti semplici di una cucina povera fatta di terra e di mare. L’olfatto, che dovrà cimentarsi nel riconoscere i profumi della macchia mediterranea che si mescolano a quelli della salsedine, dei fichi d’india e dei fiori che sul far della sera infliggono alle narici una dolce e struggente tortura.

E infine il tatto: Procida va toccata, pietra dopo pietra, spiaggia dopo spiaggia. Sarà un buon esercizio saggiare la diversa consistenza della grana dei suoi lidi. Più raffinata quella della Chiaiolella, più ruvida e grossa quella della Chiaia, più densa quella del Porto vecchio, soffice e dorata quella della Corricella. Bisognerà percorrerle molte volte e altrettante immergersi nelle acque che cambiano colore in omaggio al cielo.

Sarà necessario imparare a decifrare il linguaggio del luogo, che è il silenzio, e tarare gli orologi su un altro tempo, che è quello della lentezza. Solo allora l’isola più piccola del golfo si rivelerà per quello che è: una principessa travestita da popolana, un villaggio di pescatori a cui è stato riconosciuto il ruolo di capitale di cultura, di storia e di bellezza.

E poi, alla fine, quando avremo imparato a dialogare a tu per tu con ogni sasso dell’acciottolato e a districarci nel labirinto delle stradine che si srotolano lente verso il mare, bisognerà apprendere un’ultima lezione: andare via da Procida.

Come il giovane Arturo narrato da Elsa Morante, attraverso le cui pagine l’isola trascende la sua fisicità e diventa luogo dell’immaginario, quella sottile linea d’ombra (o raggio di sole, in questo caso) che delimita come una lama d’acciaio il territorio della fanciullezza e dell’adolescenza da quello dell’età adulta. Quando alla fine del libro Arturo, che è nato e cresciuto in quell’atollo, sale a bordo dell’imbarcazione che lo porterà sul continente, non può fare altro che chiudere gli occhi nel momento del distacco, per riaprirli soltanto quando quella sua terra è ormai lontana. “Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più”.

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