27 settembre 2021   Articoli

Le dolci guerre di Olivia

Viola Ardone - La Stampa

Siamo rimaste insieme tanto tempo a raccontarci questa storia. Io e te: Viola Ardone e Oliva Denaro, rispecchiandoci l’una nell’altra, mettendo a confronto le nostre adolescenze, i nostri quindici anni, condividendo dubbi e macinando incertezze. E adesso tu sei pronta a andartene nel mondo. Buon viaggio, Oliva, piccolo frutto dalla polpa tenera e dal cuore duro, riarso dal sole e dai venti del Mediterraneo, giovane pianta dai rami che strusciano l’aria a cercare calore e dalle radici affondate nell’umido buio della terra. O-li-va, sei nata da queste tre sillabe che mi scivolavano sulla lingua proprio come un’oliva succosa solletica il palato. È così che ti ho immaginato, piccola e scura, una bambina che non è sicura di voler crescere perché ha visto le altre diventare grandi prima di lei e già conosce la lista delle cose che non potrà fare più: il bagno a mare, giocare con i maschi, uscire da sola, proseguire negli studi. Ti ho vista correre per la prima volta con gli zoccoletti ai piedi per le stradine del tuo paese, nella Sicilia del 1960. Ho ascoltato i tuoi pensieri mentre attraversavi non senza fatica quel “limitare di gioventù” verso l’età adulta, come una Silvia leopardiana, caricandoti sulle spalle un sole giallo come un agrume maturo.

Ho sentito la tua voce ripetere a mente le regole per stare al mondo che tua madre ti aveva consegnato - un distillato di ogni sua saggezza - e a interrogarti sul senso di questa eredità, pochi precetti e semplici, ma impartiti in maniera differente al figlio e alle figlie. Maschi e femmine, popolazioni non avverse ma assoggettate fin dalla nascita a giurisdizioni differenti, pur vivendo nello stesso Stato di diritto. Uno Stato che metteva per iscritto quella diversità, nero su bianco, anche nelle sue leggi. “La femmina è una brocca”, diceva tua madre, “chi la rompe, se la piglia”. La donna è di chi decide di prendersela, confermava la legge. Era scritto nell’articolo 544 del Codice penale: nessuna punizione per l’uomo che prende una donna contro la sua volontà, se il suo fine è quello di sposarla. Il possesso non ha bisogno di consenso, stabiliva quella norma, che venne chiamata: “matrimonio riparatore”. Ma che vuoi riparare, hai protestato tu. Non esiste riparazione per una ferita così profonda: quella di una volontà violata e di un desiderio tradito. 

Così hai iniziato a parlarmi, Oliva, scegliendo le parole dal vocabolario che la maestra Rosaria ha portato un giorno in classe, quelle parole “difficili” che per te significavano bellezza e forse anche libertà. Mischiando quei termini altisonanti con quelli dei tuoi giochi di bambina e con le litanie e i proverbi del paese, le parole “facili”, che dal cuore affiorano direttamente alle labbra come bolle di ossigeno dal profondo mare. 

Ho sentito chiaramente la tua voce che mi veniva a cercare, forse per farsi aiutare a mettere in ordine i pensieri o magari solamente per mostrarmi quanta è breve la distanza tra te e me, tra i nostri giorni, che in qualche modo ancora si assomigliano, nonostante il tempo che è trascorso.

È stato allora che ho provato il desiderio di riavvolgere il nastro per cercare nel passato le origini di questo nostro presente in cui ancora l’amore viene offeso dalla violenza e frainteso con il senso del possesso. Sono trascorsi quarant’anni da quando quella legge è stata cancellata dal nostro ordinamento, insieme a quella sul cosiddetto “delitto d’onore”, lo spazio di una generazione. Il tuo tempo è quello delle nostre madri, Oliva, o delle nostre sorelle maggiori. Ma se il cammino delle leggi è lento rispetto alle vite delle persone, ancora più lento è il cammino dei comportamenti, delle abitudini, dei condizionamenti culturali, che sono persistenti e duraturi. Quello che fino a quarant’anni fa era scritto nel Codice penale oggi è spesso ancora nella mentalità e nelle azioni. Per questo noi ragazze siamo ancora in viaggio e, come te, corriamo e corriamo. Non perché siamo in fuga, ma perché la strada è lunga. E siamo cariche di dubbi, sai, proprio come te, che hai più domande che risposte. Anche queste hai voluto confidarmi: mi hai raccontato del dolce dolore di diventare donna in un periodo storico in cui essere donna è spesso una condanna. Mi hai mostrato la meraviglia e l’inquietudine di un corpo che da un giorno all’altro non ti appartiene più, perché capace di sedurre e di turbare e quindi costretto a fare i conti con il giudizio altrui. 

Ti sei chiesta se eri bella, se eri abbastanza femminile, se non lo eri troppo, e soprattutto in che cosa consiste questa femminilità, questo biglietto rosa che ci viene messo in tasca alla nascita e ci consegna a un indistinto “femminile plurale”, come se fosse un’allargatissima categoria umana, uniforme e indefinita, alternativa e non complementare a quella maschile. Ti sei chiesta dove hai sbagliato e se hai sbagliato, se avevi torto o ragione.

Mi hai fatto capire che siamo diverse, io e te, Oliva, anche se in fondo siamo la stessa cosa. Mi hai insegnato la forza della differenza e il coraggio della fragilità. Mi hai mostrato che chi non vince non è per forza un perdente. 

Mi hai portato per mano attraverso la tua silente rivoluzione, talmente silenziosa che sembrava non poter cambiare nulla. Un piccolo, invisibile no, un singolo sassolino che però ha contribuito a innescare una valanga. Ed è sempre così, in fondo, che le battaglie per i diritti precipitano a valle: quando le storie di ciascuno, a un certo punto, diventano la storia di tanti.

Mi hai parlato della tua famiglia, di tua madre che crede di conoscere tutte le risposte e di tuo padre, che non ne ha nessuna e ti ha lasciato libera di scegliere. Ma anche libertà è un fardello pesante, più ancora delle regole, perché chi è libero deve trovare da solo una strada e pagare con moneta propria il prezzo delle sue scelte.

Ti ho creata dal fondo di tutte le mie trepidazioni adolescenziali, mia cara Oliva, di ogni mio desiderio. Ci siamo fatte compagnia a lungo, abbiamo attraversato a piedi l’inferno, mano nella mano, e ne siamo uscite, in qualche modo, e con fierezza.

Ora te ne vai sola, e io ti guardo andare come si fa con chi si ama. E allora corri, Oliva, corri e non ti fermare, corri con i tuoi zoccoletti ai piedi e i capelli spettinati, corri con i tuoi fianchi acerbi di bambina e il tuo cuore di donna. Corri e fai tanto rumore.

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