07 gennaio 2021   Rassegna stampa

«Videochoc, solo la scuola salverà i figli di Gomorra»

Intervista a Viola Ardone di Antonio Menna - Il Mattino

«Di che ci meravigliamo? Siamo la regione in Italia che da più tempo toglie ai ragazzi la scuola. I primi ad averle chiuse. Gli ultimi a riaprirle, quando e se lo faremo. I giovani sono l'ultimo pensiero della politica». La scrittrice Viola Ardone, autrice del romanzo bestseller "Il treno dei bambini", insegnante in un liceo della periferia napoletana, di fronte alla scena della rapina al rider cinquantenne, ripresa da un video e diventata virale sui social, rilancia la sua polemica sulla scuola negata in Campania.

Cosa c'entra la chiusura delle scuole a causa della pandemia con una banda di rapinatori?

«Chiaramente non c'è un nesso diretto. Quei ragazzi avrebbero fatto la rapina anche se la mattina, invece di fare Didattica a distanza, ammesso che la facciano, fossero entrati in un'aula. Ma possiamo dire che la condizione generale di una generazione di giovanissimi, che già avevano situazioni difficili e complesse, non si avvantaggia della chiusura della scuola in presenza? Le aule scolastiche aiutano a lanciare uno sguardo su questi ragazzi. Già monitorare le loro assenze è un segnale. C'è un collegamento con i servizi sociali, con le famiglie. Chiudere le scuole significa spegnere una sentinella di territorio e lasciare che ragazzi già problematici siano ancora più invisibili alle istituzioni, ancora più nascosti e quindi pericolosi per loro stessi e, come abbiamo visto, per gli altri».

Se le scuole sono chiuse non è per un capriccio ma per una pandemia. Che alternativa c'era?

«Nessuna regione italiana ha chiuso le scuole nel modo e nel tempo della Campania. Altrove sono rimaste aperte almeno le elementari, in qualche caso le medie. Noi qui abbiamo adottato il regime più severo, senza peraltro averne grandi vantaggi sui numeri del contagio. Evidentemente non era quello, o solo quello, il problema. E c'erano molte cose da fare: turni differenziati, tamponi rapidi, trasporti potenziati. Invece abbiamo chiuso e risolto il problema. Però i genitori dei ragazzi vanno al lavoro, e i ragazzi stessi possono uscire di casa, stare per strada. Con la differenza che nessuno li organizza, nessuno li vede. Anche in queste ore, tutta questa incertezza: si va o non si va a scuola, riapre o non riapre? E un segnale che i ragazzi non contano nulla. - Le lezioni, però, continuano a distanza. Cosa perdono i ragazzi studiando da casa? Perdono il senso della comunità. Oggi, nella migliore delle ipotesi, vivono in una bolla, si confrontano solo con videogiochi, chat, telefonini. La scuola è anche un laboratorio di incontri, di socialità, di esempi. Tutto questo è venuto a mancare. Io vedo i ragazzi rimanere piccoli, è come se il tempo di sospensione della scuola fosse un tempo di sospensione della loro crescita».

Tornando alla rapina al rider, cosa l'ha colpita di quell'azione?

«Intanto mi ha ricordato il dopoguerra, Ladri di bicicletta. Un uomo povero che deve lavorare e gli rubano la bici, togliendogli tutto. E poi, i figli che aggrediscono il padre. Cioè, ruoli ribaltati. Noi parliamo sempre di giovani da proteggere. Qui la vittima è il cinquantenne, un uomo espulso dal mercato del lavoro, che prova a portare qualche soldo a casa, per mantenere i figli che hanno la stessa età dei rapinatori, e quelli che lo accerchiano, lo brutalizzano, gli tolgono tutto. Un conflitto generazionale tra diverse disperazioni. Due mondi di perdenti, peraltro. Dove la vittima è il più vecchio».

Scene che accadono tutti i giorni ma che stavolta abbiamo potuto vedere, grazie a un video girato di nascosto. Cambia qualcosa aver visto tutto?

«Aver visto ci ha messo di fronte a quello che non vogliamo sapere. È una scena che resta negli occhi. E che alimenta un senso di impotenza. Sembra quasi l'impotenza della società. L'uomo difende con tutte le sue forze il suo mezzo. Ma di fronte a un gruppo di ragazzi che sembra fare un addestramento, una prova generale. Un training criminale. Hanno scelto un bersaglio debole, sono in tanti, eppure quasi falliscono. A un certo punto sembra quasi farcela, l'uomo, a liberarsi, facciamo il tifo per lui. Poi, soccombe. Quasi a simboleggiare la sconfitta della società rispetto alla violenza e al crimine».

Cambierà qualcosa? Lei ha ancora la speranza di un cambiamento?

«Conosco quei profili di ragazzi, non solo con la scuola. Tengo da tempo, insieme ad altri autori, un laboratorio nel carcere minorile di Nisida. Vedo l'escalation. La prima rapina, poi di più, poi l'omicidio. Sembra un destino inarrestabile. La rapina al rider è arrivata quasi contestualmente all'omicidio del papà di un ragazzo che, a sua volta, fu ucciso durante una rapina. Cose terribili che ormai raccontiamo come quotidiano. Cambiare le cose? Non certo con gli slogan. Ci vogliono politiche per il sociale».

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