31 maggio 2021   Articoli

Le imprese del sud e la pandemia

Giuseppe Coco - Corriere del Mezzogiorno

La domanda se il COVID ha impattato e impatterà nel lungo periodo di più sul già fragile sistema produttivo del sud aleggia come una spada di damocle sulle nostre regioni. Nella prima ondata in realtà la severità della epidemia nel nord e la rigidità del lockdown facevano pensare che i danni maggiori sarebbero stati sopportati fuori dal Mezzogiorno. Man mano però che passava il tempo e le condizioni di chiusura venivano ammorbidite sono venuti in rilievo due elementi aggiuntivi. Da un lato la fragilità relativa, anche finanziaria, delle imprese diventava un fattore sempre più importante nel determinare la resistenza a chiusure definitive nel medio termine. Dall’altro sono diventate più importanti le capacità di reazione, ed in particolare di riorganizzazione del lavoro in smart working, o anche in presenza ma in sicurezza. In questo contesto dimensione delle imprese e capacità manageriali diventavano presumibilmente più rilevanti e sarebbero venute in rilevo debolezze strutturali del sistema produttivo italiano e meridionale. 

Queste considerazioni sono confermate dai dati del Censimento Permanente delle Imprese in rapporto al COVID presentati la settimana scorsa dall’ISTAT. Nei 4 indicatori strutturali sul sistema delle imprese, Dimensione, Produttività, Quota di addetti ‘high tech’, e Apertura all’estero, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna sono nell’ultimo quartile a livello nazionale. La Campania si salva (è nel penultimo quartile) solo per dimensione e quota di high tech. Ciononostante le imprese campane presentano un rischio operativo maggiore di quelle del resto del sud (per le quali comunque è mediamente alto). 

Le regioni del sud, ma anche il Lazio, presentano le percentuali più alte di imprese che non prevedono di riaprire, addirittura sopra il 4% in Calabria e Sardegna. ISTAT ha poi comparato le imprese che dichiaravano di aver subito perdite di fatturato superiori al 10% nel primo lockdown (marzo-aprile 2020) col periodo successivo (giugno- ottobre) per capire gli effetti immediati e di medio termine. Mentre nel primo periodo le percentuali sono paragonabili tra ripartizioni territoriali, ovvero non emerge una differenza sostanziale tra sud e nord (una media del 80% circa di imprese denuncia una perdita superiore al 10%), nel periodo successivo emerge il solito sistematico svantaggio meridionale. Quasi il 5% in più di imprese del sud dichiarano perdite sopra soglia (media 60% circa). Ma anche di molte regioni del centro registrano percentuali elevate, confermando i pericoli di meridionalizzazione di quest’area.

Il Rapporto fornisce una prima spiegazione guardando al numero di imprese che hanno utilizzato lo smart working, che è molto più basso al sud. In termini più generali è confermata l’ipotesi che nel medio periodo le imprese più strutturate del nord hanno reagito meglio, registrando perdite minori. Resta l’incognita di cosa sarebbe successo se il sistema delle regioni a colori fosse stato implementato con lockdown localizzati a livello regionale già a marzo del 2020, considerando che nella primavera dell’anno scorso i morti nelle regioni meridionali sono stati pochissimi. 

La questione però è puramente teorica in quanto i Presidenti delle Regioni del sud si sono sistematicamente e immediatamente espressi per chiusure rinforzate anche nei mesi successivi, chiusure che inevitabilmente hanno danneggiato maggiormente le nostre imprese. Come già detto altre volte, nel gioco politico, oltre a valori diversi, prevalgono interessi diversi, ed è quasi tautologica la constatazione che a prevalere nelle regioni meridionali sono stati gli interessi dei dipendenti pubblici e degli anziani, ancor più di quanto abbiano fatto a livello nazionale. 

Il Rapporto però apre alla speranza nei dati sulla reazione programmata delle imprese. Nel Mezzogiorno (e in parte anche al Centro) è maggiore il numero di imprese che programma un cambiamento di strategia in una dimensione rilevante tra la riorganizzazione del lavoro, l’apertura di nuovi canali di commercializzazione e, un po' meno, la possibilità di aprire a nuove produzioni. E’ importante questo dato perché rileva la consapevolezza della necessità di cambiare radicalmente. Alla fine dei conti la sopravvivenza di un tessuto di imprese fragile, a fronte di una ristrutturazione internazionale gigantesca come quella che sta avvenendo sarebbe un obiettivo ridicolo. Molto più importante è creare un tessuto di imprese, meno numerose ma più grandi e più solide, in grado di reggere. 

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Economia

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