01 marzo 2022   Articoli

I divari e i luoghi comuni

Giuseppe Coco - Corriere del Mezzogiorno

La scorsa settimana la Commissione Europea ha licenziato l’ottavo Rapporto sulla Coesione. Si tratta di un documento che la Commissione produce periodicamente, l’ultimo è del 2017, che traccia il quadro della diseguaglianza regionale in Europa e dei risultati della politica di coesione nel contrastarla. I principali risultati non sono certo sorprendenti. Le regioni europee convergono molto meno che 20 anni fa e soprattutto la convergenza sembra riguardare esclusivamente alcune delle regioni di Stati di nuova adesione, dove il motore della convergenza stessa sembra la delocalizzazione dell’industria per i minori costi del lavoro e la maggiore facilità di fare business piuttosto che le politiche di coesione. In ogni caso per alcuni paesi come Ungheria e Polonia i trasferimenti della politica di coesione, grandi rispetto al loro PIL, sono sicuramente stati importanti per realizzare infrastrutture che altrimenti avrebbero faticato a essere finanziate.

Il rapporto però, come già quelli precedenti, smentisce ampiamente alcuni luoghi comuni che vengono costantemente ripetuti in Italia. Il primo e più evidente è che la diseguaglianza territoriale in Italia sia un unicum in Europa. Si tratta di un grande falso. In realtà le diseguaglianze sono anche più pronunciate in tutti gli altri grandi paesi (i più piccoli ovviamente non fanno testo è normale che siano meno diseguali). Che si tratti della diseguaglianza in termini di PIL pro capite o di competitività regionale la dispersione delle regioni italiane non è maggiore di quella di Francia e Germania (ancor meno di quella del Regno Unito, non ricompreso in questa relazione per ovvi motivi).

Il secondo luogo comune è che l’Italia sarebbe divisa tra un nord prospero e dinamico, tra le aree più progredite d’Europa, ed una zona tra le più arretrate. Questa rappresentazione era vera forse 30 anni fa. La realtà oggi è che le diseguaglianze italiane sono simili a quelle degli altri paesi, ma con le zone progredite che sono appena sopra la media europea a 27, comprendendo nella media anche paesi come la Romania e la Bulgaria. Solo per capirci, il PIL pro capite delle regioni più sviluppate della Germania o della regione di Parigi è più del doppio della media europea.

La vera rappresentazione della situazione italiana è quindi quella di un paese in forte arretramento complessivo, tanto è vero che dal 2000 la perdita di competitività relativa è analoga per tutte le aree del paese. Le regioni che anzi arretrano di più, in termini di Pil pro-capite, sono alcune del centro e del nord ovest. A questo proposito il Rapporto elabora un indice basato su una idea di alcuni accademici, tra cui l’italiana Simona Iammarino, che tenta di misurare quanto una regione sia in una trappola dello sviluppo: Una trappola dello sviluppo si configura quando non cresce (abbastanza) produttività, impiego e valore aggiunto. Di fatto la trappola si verifica sia alternativamente per degli svantaggi di costo, o perché insufficientemente innovativi o poco competitivi, ad esempio per scarsa qualità del capitale umano. La stampa ha enfatizzato come quasi tutte le regioni meridionali siano in effetti nella trappola dello sviluppo, ma pochissimi hanno notato che tra le regioni sviluppate, il rapporto include molte le regioni del centro e nord Italia in questa categoria.

Questo quadro si ripete sostanzialmente per tutti gli indicatori, i più disparati, dalla percentuale di laureati a quella di cittadini che non hanno mai usato un computer, alla qualità del governo, alla corruzione (queste ultime percepite). Il nord è a malapena nella media europea, spesso sotto, il sud regolarmente tra le regioni peggio performanti. Esiste quindi ormai una questione meridionale all’interno e come corollario di una questione italiana. E’ il quadro di un paese che ha sistematicamente disinvestito per 20 anni, preferendo ad esempio tra le poste di una spesa pubblica non certo piccola in aggregato, sempre quelle più improduttive. Secondo dati elaborati da Giuseppe Travaglini dell’Università di Urbino l’accumulazione di capitale netta, pubblica e privata, negli ultimi 10 anni è negativa. Il declino del Mezzogiorno in questo quadro è solo la manifestazione estrema di una incapacità sistemica. Chi si illude di superarlo con una dose extra di spesa pubblica senza cambiare le vecchie care abitudini, si prepari a una brutta sorpresa. Ma in realtà forse non sarà nemmeno una gran sorpresa. A leggere molti commenti si ha la chiara impressione che la spesa sia il vero scopo non un mezzo. Il pericolo insito nel PNRR in effetti è che esso venga interpretato come un semplice rilassamento del vincolo e non una occasione per cambiare.

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