21 maggio 2023   Articoli

L'allarme sulla denatalità e le scelte del welfare

Giuseppe Coco - Corriere del Mezzogiorno

La pubblicazione delle statistiche demografiche dell’Istat ha, come ogni anno, riacceso il dibattito sulle cause del calo demografico del nostro paese e anche, per un riflesso quasi automatico le riflessioni sui divari territoriali. Il calo non è un fenomeno recente. I meno avvertiti ne parlano come di un fatto di questo secolo ma in realtà l’Italia, uno dei paesi con la demografia più favorevole in Europa fino al 1970, ha vissuto gran parte del calo del tasso di fertilità nei venti anni successivi. Nel 1990 il tasso di fertilità era già pari a 1,36 figli per donna, non molto differente da quello di quest’anno (1,25).

L’Italia non è un caso isolato in questa esperienza. La transizione verso livelli di benessere superiore e l’emancipazione femminile guidano in tutti i paesi il calo demografico, in maniere a volte repentine. L’Economist ha fatto notare recentemente che sta calando molto più velocemente di quanto atteso il tasso di fertilità a livello mondiale, trainato dal calo molto veloce in particolare di alcuni paesi africani, il cui reddito medio sta crescendo (la recrudescenza dell’emigrazione è in realtà un altro sintomo di questa transizione). 

A livello europeo abbiamo esperienze molto diversificate. Paesi a stadi di sviluppo arretrato come la Romania o l’Ungheria hanno ancora tassi di fecondità elevati. Anche alcuni paesi avanzati come la Francia, in cui però tipicamente sono maggiormente presenti gruppi sociali di origini non europee, ancora molto più fertili, sono riusciti a mantenere tassi di fertilità vicini alla fatidica soglia di 2, che impedisce un veloce calo demografico.

Anche in Italia in realtà gli immigrati hanno impedito che il calo demografico fosse ancora più drastico. Ma più al nord che al sud. Tra le confusioni propalate c’è quella secondo cui il tasso di fertilità del meridione sarebbe diventato più basso che al nord, per la assenza di servizi sociali e la minore occupazione femminile. In effetti il tasso di fertilità totale delle regioni del sud è vicino alla media nazionale, mentre nelle regioni del nord è maggiore (bassissimo al centro). Si tratta però di letture semplicistiche, all’interno delle quali sarebbe difficile spiegare perché a soffrire di più sia il centro Italia. In realtà la lettura è ancora più fuorviante se consideriamo il fatto che un numero crescente di nuovi nati nasce in famiglie di immigrati. Se consideriamo separatamente i tassi di fertilità per origine della madre (paese di nascita) e prendiamo solo le madri nate in Italia, il quadro è diverso. Il tasso di fertilità delle donne nate in Italia è inferiore (1,18) a quello totale ed è sempre maggiore al sud (in particolare nelle isole). Negli ultimi anni anzi il tasso è diminuito molto più velocemente al nord che al sud. 

La malattia quindi è più settentrionale che meridionale, con prospettive ancora peggiori, dato che contemporaneamente sta calando velocemente anche il tasso di fertilità degli immigrati che, come detto, ha frenato relativamente il calo al nord fino ad oggi. Si tratta però di differenze piccole rispetto alle proporzioni del disastro demografico e dei problemi che ci pone in termini di sostenibilità del paese. 

Gran parte dei commentatori puntano il dito sulle condizioni di disagio dei giovani e le difficoltà oggettive nel prendere una decisione, quella di avere un figlio, dai risvolti economici importanti. L’idea di ridurre questa scelta a una scelta economica, lo dico da economista, francamente mi sembra espressione di una cultura inadeguata. Inoltre mi pare che le condizioni di difficoltà economica che hanno fronteggiato molte generazioni precedenti fossero leggermente più drammatiche della generazione attuale, anche se le aspettative dei giovani sono sicuramente meno brillanti rispetto a qualche decennio fa. 

Tuttavia è evidente che la spesa pubblica per la famiglia è insufficiente. Anche questo però mi pare un approccio incompleto in un paese col nostro debito pubblico se non si discute cosa abbiamo deciso di privilegiare al suo posto. In altri termini un discorso razionale si può fare solo entrando nel merito della composizione della spesa pubblica del nostro paese. Se prendiamo un anno tipo come il 2015 i dati Eurostat ci dicono che l’Italia, con una spesa pubblica su PIL inferiore a quella francese, spendeva in pensioni il 16,4% del PIL, mentre la Francia il 15,2. Se volete sapere dove prendiamo le risorse per garantire ogni anno 1 o 2 punti di Pil di spesa pensionistica più dei nostri concorrenti, spesa spesso non sostenuta da versamenti previdenziali, basta guardare alla voce ‘welfare per la famiglia’. La Francia spende il 2,5% del PIL, noi 1,5%. Oppure alla istruzione su cui la Francia spende il 5,5% e noi il 4%. E’ l’espressione plastica di preferenze sociali che abbiamo espresso e che politici zelanti si sono incaricati di tradurre in scelte controproducenti. Ed è il motivo per cui non ci possiamo raccontare che non sappiamo come siamo finiti in questo vicolo cieco. 

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Economia

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