05 aprile 2023   Articoli

Cosa possiamo aspettarci dalla crisi bancaria

Giuseppe Coco - Riparte l'Italia

L'ultimo anno ha visto un riacutizzarsi dopo circa 15 anni delle crisi finanziarie. Prima l’epicentro è stato l’universo delle cripto-monete e dei cripto-investimenti in generale, ovvero essenzialmente strumenti derivati delle monete. Come ho spiegato in un altro articolo su riparte questa crisi era del tutto attesa e comprensibile. Le cripto-monete sono la manifestazione contemporanea di un fenomeno secolare, innovazioni finanziarie la cui utilità è tutt’altro che comprensibile ma che scatenano entusiasmi irrazionali nelle menti deboli, in parte di carattere opportunistico (anche vere e proprie truffe). Solo il tempo potrà svelare se le criptovalute hanno una funzione sociale positiva. Oggi sono un cancro. La loro unica funzione è permettere transazioni che sfuggono alla giurisdizione degli Stati utili solo alla criminalità internazionale e alla grande evasione fiscale e consumano energia anche fossile con una dispersione di risorse assurda e dannosa. Il loro uso andrebbe urgentemente bandito dagli stati civili, o perlomeno dovrebbe essere chiaro che chi utilizza cripto-asset dovrebbe essere soggetto a controlli rafforzati e non può richiedere di essere compensato in caso di perdite (come aveva adombrato improvvidamente Paolo Savona tempo fa).

Molto più inattese, ma col senno di poi prevedibili, sono state le crisi bancarie americane e quella di Credit Suisse del mese di marzo. Le crisi americane di cui parleremo oggi (Silicon Valley Bank, Signature Bank e Silvergate) hanno caratteristiche simili. Riguardano medie banche regionali. La più grande, la SVB, aveva depositi per 200 miliardi di dollari. La rapidità con cui è avvenuta la corsa agli sportelli segnala la necessità assoluta di cambiare le modalità dell’intervento pubblico in caso di crisi. SVB ha avuto richieste di ritiro per circa 140 miliardi di dollari in due giorni, una ondata cui non avrebbe resistito anche la banca meglio gestita del mondo. Di fatto le Banche centrali devono abituarsi a reazioni ad horas per ristabilire la fiducia dove viene meno (senza ragione), forse reazioni semi-automatiche a fronte di ritiri improvvisi. La possibilità di una ‘corsa agli sportelli’ è sempre stata la debolezza fondamentale del modello di business bancario. Una banca trasforma depositi esigibili in ogni momento in crediti e investimenti di fatto illiquidi. Una richiesta generalizzata dei depositi a seguito di una crisi di fiducia pone sempre un problema di liquidità, per questo le Banche Centrali fanno da prestatore di ultima istanza in caso di istituti solventi (ovvero con un attivo decente) ancorché illiquidi. L’assicurazione per piccoli depositi poi rende meno impellente per i correntisti la corsa. 

Ma da dove è nato il panico su SVB? Da due fattori. Da un lato molti correntisti di SVB avevano depositi molto eccedenti il limite garantito, si trattava di imprese della Silicon Valley. In caso di fallimento avrebbero quindi sopportato per intero le perdite. Dall’altro l’attivo di SVB era molto sbilanciato sul lungo termine, per cui quando sono partiti i ritiri e ha dovuto liquidare alcuni investimenti lo ha fatto in perdita. Si trattava, ironia della sorte, di Titoli di Stato americani, l’asset più sicuro del mondo formalmente, ma esposto a rischio di interesse. Un titolo obbligazionario a lungo termine emesso a tassi bassi infatti in presenza di rialzi dei tassi di interesse come nell’ultimo anno perde valore e se si deve liquidare genera perdite immediate. Il fatto che SVB fosse così poco diversificata dipende anche da eccezioni regolamentari introdotte dalla Presidenza Trump per semplificare la vigilanza sulle banche medie rispetto a quelle gigantesche. In effetti le norme sulla vigilanza sul sistema bancario ormai sono ipertrofiche e complicatissime, direi ormai incomprensibili. La sfida sarebbe quella di semplificarle mantenendo un controllo significativo sugli attivi (regole semplici ma stringenti proposte ad esempio da Paul Volker dopo la crisi subprime sono state ignorate). 

Tre sono quindi le lezioni da questa crisi. Due nuove e una vecchia. Quella vecchia è come sempre che bisogna vigilare sul portafoglio delle banche con criteri di ragionevole diversificazione e assunzione di rischio, cosa che nonostante le complicazioni non sempre la regolamentazione bancaria riesce a fare. Quelle nuove sono in primis che l’intervento deve essere più veloce del passato, se possibile semiautomatico. E poi che il rialzo violento dei tassi può avere effetti problematici sui bilanci bancari. 

In linea di principio tassi più alti dovrebbero essere benefici per i bilanci bancari dove di solito il tasso sui depositi rimane basso mentre il margine sale. Tuttavia se una banca è esposta sul lungo periodo ci possono essere perdite anche consistenti su investimenti obbligazionari, gravi se questi devono essere liquidati. Questo spiega anche perché a fronte del fallimento di una media banca regionale che certo non poteva generare effetti di contagio diretto su altre parti del sistema bancario, il mercato ha reagito immediatamente con il crollo dei valori azionari dell’intero sistema bancario americano. 

La FED ha deciso di affrontare questo problema assicurando credito immediato al valore nominale dei titoli (quindi senza perdite) a fronte di garanzie ‘sicure’ come i titoli di Stato. Di fatto segnalando che non fermerà il rialzo dei tassi per evitare fallimenti bancari, perché ritiene che il pericolo inflazionistico sia troppo pressante. Al momento questa strategia sta funzionando anche se non è detto che il veloce cambio di regime monetario, dopo 10 anni di denaro facile, non generi squilibri altrove. Va detto che questa strategia si segnala come l’ennesimo salvataggio generalizzato di una finanza, talvolta ipertrofica, che di fatto è quasi obbligato per le autorità, salvo accollarsi il serio rischio di una recessione. Negli Stati Uniti ed in parte in Europa, di fatto non ci possiamo permettere fallimenti bancari e questo non potrà non impattare negativamente sull’assunzione di rischio.   

L’Europa al momento ha meno preoccupazioni. La regolamentazione bancaria europea ha creato meno eccezioni, e anche gli istituti di media taglia sono soggetti a controlli più stringenti e stress test che simulano la reazione dell’attivo a cambiamenti dei parametri, come i tassi di interesse. Tuttavia questo sconta che il rialzo dei tassi non provochi squilibri significativi per paesi ad alto debito, come l’Italia. E’ necessario che i tassi sul debito pubblico italiano cioè non crescano troppo più di quelli degli altri paesi, altrimenti le banche italiane che sono più esposte in portafoglio al nostro debito potrebbero in effetti soffrire. Questo richiede che il governo italiano persegua una politica di bilancio ancor più prudente che in altri periodi, che mantenga credibile la nostra posizione. Allo stesso tempo le autorità monetarie (la BCE) devono vigilare strettamente su eventuali effetti asimmetrici del rialzo dei tassi (e della fine del programma di acquisto dei titoli del debito pubblico) sui diversi paesi. Anche perché è difficile che una prossima crisi nel mezzo di una guerra che in qualche maniera ci coinvolge, rimanga confinata ad un paese nel cuore dell’Europa. La lezione della precedente crisi finanziaria è chiara: ognuno faccia i compiti a casa per non soffrire tutti.

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