La «Bideneconomics»: investimenti, equità e qualche tassa in più
Amedeo Lepore - Il Mattino
Con il discorso da Presidente eletto, Joe Biden si è rivolto ai cittadini americani in modo semplice e chiaro, con quell’understatement tipico della sua campagna elettorale e delle sue esternazioni in attesa del conteggio dei voti. L’appello all’unità del Paese e per una civiltà politica che non consideri nemici gli avversari, confermando il ruolo di rappresentanza universale delle istituzioni, è un segnale di riconciliazione nazionale, dopo quattro anni di contrapposizioni e rotture, di insano isolazionismo e prove muscolari di cartone, che hanno spossato la resilienza e la capacità di progresso degli Stati Uniti.
L’esigenza di fondo di una ripresa valoriale è ben presente nella scelta di Kamala Harris e nelle parole di Biden che, indicando l’obiettivo di un risveglio dell’America e della ricostruzione della sua “spina dorsale” (la classe media), intende “schierare le forze del decoro e le forze dell’equità” insieme a “le forze della scienza e le forze della speranza nelle grandi battaglie del nostro tempo”. Il riferimento alle svolte della storia – dall’Unione perpetua di Lincoln al New Deal di Roosevelt, dalla Nuova Frontiera di Kennedy al “Yes we can” di Obama – quando sono state assunte decisioni ardue per erigere ponti verso il futuro, serve per mostrare la possibilità di un nuovo vasto cambiamento verso “una nazione di prosperità e di scopo”.
La consapevolezza di un legame inscindibile tra l’intervento contro il Covid, del tutto negato da Trump, e il rilancio economico del Paese lo ha portato a chiamare un gruppo di scienziati per un progetto d’azione, da avviare il giorno stesso del suo insediamento, in grado di debellare il virus. L’importanza della Bideneconomics è stata rilevata da alcuni autorevoli commentatori. Non si tratta solo della recente analisi di Jeffrey Frankel dell’Università di Harvard, secondo cui l’economia statunitense va meglio con i blu, poiché dal dopoguerra in poi la crescita annuale del Pil è stata in media del 4,3% sotto i Presidenti democratici e del 2,5% sotto i repubblicani.
Tredici economisti, vincitori del premio Nobel, avevano espresso il loro sostegno alle strategie di Joe Biden, che “si tradurranno in una crescita economica più rapida, più robusta e più equa”. Altri duecento economisti hanno evidenziato come il coronavirus abbia svelato le ineguaglianze della società americana e come il programma di Biden includa alcune proposte essenziali per i diritti dei lavoratori, l’assistenza sanitaria ai più anziani e disagiati, gli investimenti in infrastrutture strategiche e il sostegno alle imprese, l’equità razziale come spinta alla ripresa dell’economia, un’istruzione sempre più aperta e accessibile, un piano di energia verde per guidare la bioeconomia globale. Anche se gli economisti indovinano di rado le previsioni, le proposte dell’amministrazione che si insedierà il 20 gennaio sono un aspetto decisivo di una nuova prospettiva economica globale.
Biden si è impegnato a riprendere il cammino virtuoso degli accordi sul clima, fissando il traguardo interno di “zero emissioni” entro il 2050 e ipotizzando una spesa di oltre duemila miliardi nel prossimo quadriennio. Inoltre, egli intende fornire al Paese un forte stimolo macroeconomico fino a quando reddito e occupazione non torneranno ai livelli precedenti la pandemia. L’asse centrale di questo schema è rappresentato dalle politiche per massicci investimenti in infrastrutture, ricerca, istruzione e sviluppo, puntando a incrementare la produttività complessiva del sistema.
Per il finanziamento di queste misure si pensa a una tassazione progressiva, escludendo dagli aumenti delle imposte i redditi inferiori a 400.000 dollari. Non sono novità eclatanti, ma dopo il disastro economico trumpiano, come lo ha definito Joseph Stiglitz, basta un messaggio di saggezza per attivare buone aspettative. Secondo Moody’s Analytics, per effetto di queste politiche, entro il 2024 il Pil reale supererebbe del 4,5% quello attuale, con un incremento di sette milioni di posti di lavoro. Il mondo è entrato, dopo il secolo della leadership statunitense, in un multipolarismo difficilmente reversibile, che richiede un equilibrio tra potenze emergenti e Paesi occidentali, come componente primaria di una prospettiva di pace e di progresso.
Di una nuova globalizzazione si avverte la necessità, a partire dalla cooperazione e dalla governance internazionali indispensabili per combattere la pandemia e la drammatica crisi che ha provocato. Senza una ripresa delle relazioni di collaborazione tra USA ed Europa è impossibile bilanciare l’avanzata della Cina, in una logica di ripensamento di una democrazia efficiente e non illiberale. Solo l’inizio di questa nuova fase può indicare dove gli Stati Uniti e il mondo si incammineranno.
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