Perché va rifatta una Cassa del Mezzogiorno 2.0
Amedeo Lepore - Il Mattino
In occasione del 70° anniversario dell’avvio dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno questo giornale ha ospitato gli scritti di Romano Prodi e Gianfranco Viesti, che hanno ricostruito il contesto di quegli anni e le principali traiettorie di un’esperienza dai due volti. Oltre quarant’anni di storia, caratterizzati per una metà e più da risultati di enorme portata e per una seconda fase da un costante declino, fino al cambio di pelle e, poi, alla scomparsa di ogni strumento per la crescita delle aree in ritardo.
Le origini della “Cassa per Opere Straordinarie di Pubblico Interesse nell’Italia Meridionale”, istituita il 10 agosto 1950 con una dotazione di 1 miliardo e 600 milioni di dollari per dieci anni, si discostavano dal disegno degli esponenti del “nuovo meridionalismo”, che avrebbero voluto subito la formazione di una base industriale in grado di emancipare le regioni meridionali, riducendo progressivamente il divario tra le due parti dell’Italia. Infatti, la necessità di sostenere lo sforzo di riforma agraria e di incrementare la disponibilità di infrastrutture nel Mezzogiorno fece propendere per un intervento volto a promuovere i “prerequisiti” dello sviluppo.
Solo nel 1957 la Cassa si indirizzò verso l’industrializzazione del Sud, applicando il modello della produzione di massa. Non si trattava, però, di una scelta obbligata o casuale. La logica produttiva era spiegata da Saraceno, all’atto dell’entrata in vigore del Trattato di Roma, in termini di grande attualità: “L’equilibrato sviluppo del sistema industriale italiano richiede una formazione addizionale di capitale tale, per cui lo sviluppo industriale delle zone arretrate venga a porsi non come un’alternativa, ma come una integrazione del flusso di investimenti che deve continuare ad aver luogo per aumentare la produttività del sistema industriale esistente”.
Questo intento si inseriva nel solco tracciato da Francesco Saverio Nitti e dagli uomini del primo IRI, che avevano visto nell’industria la principale vocazione di un Mezzogiorno capace di riscattarsi da una consolidata condizione di sottosviluppo. La spinta verso questa prospettiva venne anche dalla Banca Mondiale, che contribuì con otto prestiti e circa 400 milioni di dollari (tra il 1951 e il 1965) alle principali realizzazioni della Cassa.
L’intervento straordinario era caratterizzato dalla concentrazione degli investimenti in impianti di grandi dimensioni e nei settori di base, complementari all’industria settentrionale. A sproposito, fu coniata un’espressione di forte presa mediatica ma di scarsa efficacia interpretativa – le cosiddette “cattedrali nel deserto” – rigettata da Pasquale Saraceno, dati gli esiti positivi dell’industrializzazione. Del resto, Paul Rosenstein-Rodan, che rappresentava la Banca Mondiale, aveva indicato l’obiettivo di un forte impulso produttivo, un big push bilanciato di offerta e domanda, per il salto di continuità necessario alla modernizzazione del Sud.
La triangolazione di interessi tra Italia, Mezzogiorno e Stati Uniti, a fondamento della Cassa, diede vita a una “doppia convergenza”, che portò l’Italia tra le principali potenze manifatturiere europee e permise al Sud di conseguire un ritmo di sviluppo del 5,8%, superiore a quello del Nord, pari al 4,3%. Durante il “miracolo economico”, il Mezzogiorno riuscì a compiere un notevole balzo in avanti, l’unico nella storia unitaria: il Pil pro capite del Sud passò da poco meno del 53% di quello del Centro-Nord nel 1951, a più del 61% nel 1971. La parte innovativa dell’intervento straordinario giunse a conclusione in contemporanea con la fine della golden age e la caduta del modello fordista per effetto delle crisi petrolifere del 1973-1979.
L’ingresso delle Regioni nella gestione della Cassa e il tramonto di una struttura tecnica con un elevato grado di autonomia hanno condotto alla trasformazione di un’opera efficiente e produttiva, un prototipo per le strategie globali di crescita, in un’attività dispersiva di carattere assistenziale. Dopo di allora l’iniziativa per il Mezzogiorno ha navigato a vista, tra alcuni fallimenti (come nel caso delle politiche di sviluppo locale) e la comparsa di una “questione settentrionale” che ha polarizzato gli interventi, provando a ridestarsi solo dopo le conseguenze catastrofiche della crisi del 2008-2014.
Alla luce di questa grande storia di un recente passato, non si può pensare, tuttavia, a una riedizione della Cassa per il Mezzogiorno nella situazione attuale. È possibile, al contrario, perseguire il tentativo, come suggerisce Prodi, “di riprendere con nuovi strumenti gli obiettivi che essa si proponeva” e di recuperare l’impeto operoso dei primi anni del dopoguerra. Le condizioni di contesto, dopo il varo del Next Generation EU e un ritorno di attenzione complessiva al Mezzogiorno, sono particolarmente propizie. Si possono indicare, allora, tre campi di azione che prendono le mosse dall’ispirazione alla Cassa.
Innanzitutto, un’iniziativa pubblica massiccia deve essere concentrata su scopi produttivi e a termine, come transitorio avrebbe dovuto essere l’intervento straordinario, secondo Saraceno, per dare centralità al ruolo dell’impresa, dopo aver creato occasioni di competitività anche per i territori meridionali. Un’interazione originale tra Stato e mercato può essere la chiave di volta di un meridionalismo delle riforme e dei fatti. Inoltre, invece di vagheggiare nuove strutture speciali di improbabile realizzazione, basterebbe unificare i centri già esistenti di attrazione degli investimenti e di attuazione delle strategie industriali, seguendo l’esempio della combinazione in un unico Ministero delle competenze per il Sud e per la Coesione territoriale.
È auspicabile un progetto che non preveda un’altra task force, ma il coordinamento, quanto meno, delle attività di Invitalia, Cassa Depositi e Prestiti, Agenzia per la coesione, Banca del Mezzogiorno, ICE, Sace-Simest, InvestItalia, Dipartimento per le politiche di coesione e apparati del Ministero degli Esteri. Un eccesso di enti e attribuzioni, che sono del tutto disfunzionali a una politica organica, efficace e coerente con i programmi europei. Infine, la definizione del Recovery Plan potrebbe anche concretizzarsi nella proposta di un’Agenzia per lo sviluppo euro-mediterraneo.
Questo strumento al servizio dell’Europa contribuirebbe ad alcuni risultati non trascurabili: una gestione comune dei fondi comunitari per la ricostruzione e la coesione, in modo da massimizzarne l’impatto; l’intensificazione degli sforzi dell’Unione Europea per il superamento dei propri divari e l’evoluzione dei Paesi mediterranei in una prospettiva di solidarietà e collaborazione; il recupero dell’antico spazio del “Mare interno” per integrare un’area geo-economica sempre più importante a livello globale e intercettare le nuove vie di comunicazione e di crescita. A queste linee semplici, ma di ampio respiro, varrebbe la pena di collegare gli impegni nazionali ed europei per l’abbrivo di un’epoca di ripresa e progresso.
Seguici sui social