Autonomia, sette motivi per dire no
Giuseppe Coco - Corriere del Mezzogiorno
Le audizioni in Parlamento hanno mostrato un fronte di opposizione sostanziale al Ddl Calderoli molto ampio e soprattutto in istituzioni come la Banca d’Italia e l’UPB, che non hanno tra le loro ragioni costitutive la difesa di una parte del paese contro un’altra.
Sono queste le opposizioni che potranno sperabilmente far deragliare il progetto. Progetto che, ricordiamolo, è un nonsenso per l’Italia nel suo complesso per le seguenti ragioni: 1) riguarda anche materie che nessuno sano di mente devolverebbe a enti territoriali (ad es. le grandi infrastrutture); 2) aumenterà i conflitti istituzionali che costituiscono già una parte consistente del contenzioso di fronte alla Corte Costituzionale; 3) riguarda materie sulle quali non c’è alcuna prova o argomento a favore di una maggiore efficienza della fornitura a livello locale piuttosto che nazionale (come l’istruzione) e forti sospetti di consistenti effetti esterni tra regioni; 4) richiederà una duplicazione di strutture di gestione amministrativa a livello regionale, senza necessariamente una contrazione delle strutture statali; 5) richiede la istituzione di un complesso sistema di trasferimenti tra Stato e Regioni che potrebbero complicarne i rapporti e generare vincitori e perdenti; 6) Peggiora il federalismo all’italiana in cui si rende definitivo il divorzio tra chi tassa (lo Stato) e chi spende (la Regione). I governi centrali quindi diminuiranno ancor più di quanto facciano oggi i trasferimenti su scuola e sanità a favore di assegni elargiti a vario titolo purché a nome del Presidente del Consiglio di turno; 7) Mette a rischio i conti pubblici nella misura in cui un Accordo con alcune Regioni renderebbe più difficile la gestione di una fetta importante del bilancio pubblico in una eventuale crisi.
A fronte di questi danni potenzialmente catastrofici, il solo vantaggio (potenziale) è quello della sussidiarietà, la maggiore vicinanza dei decisori agli utenti. Un vantaggio la cui efficacia però dipende dalla maggiore responsabilità dei governi locali nei confronti dei cittadini.
Ma il divorzio tra responsabilità di entrata e di spesa rende vacuo anche questo argomento. I Governatori possono sempre invocare una insufficienza di finanziamenti a fronte delle inefficienze nella fornitura di servizi, e infatti lo fanno sistematicamente (a volte a ragione).
Ci sono poi le considerazioni sulla distribuzione della spesa pubblica tra regioni, le uniche presenti nel dibattito meridionale e su cui è stata impostata la campagna contro l’autonomia. I risultati sono evidenti nella raccolta firme per il Disegno di Legge di iniziativa popolare per modificare il Titolo Quinto che, nonostante sia meritorio, è stato promosso di fatto solo da una parte del paese.
Circa il 75% delle firme sono state raccolte nel Mezzogiorno più il Lazio (dove pesa moltissimo la Pubblica Amministrazione romana), solo il 15 in tutto il settentrione (Emilia compresa).
Come mai? A mio parere la campagna sulla ‘secessione dei ricchi’ ha creato la convinzione che ci sia una parte del paese che guadagnerebbe dalla autonomia. Alla luce di quanto detto questa convinzione è sicuramente falsa, a guadagnarci sarebbe solo una parte politica interessata alla gestione separata sine die di una fetta importante di bilancio pubblico.
Va detto peraltro che, se l’obiettivo era di creare una coscienza meridionale sul tema, oppure utilizzarlo politicamente per creare un partito del sud, è riuscito solo in una ristretta cerchia di intellettuali.
Le manifestazioni sul tema, che hanno mobilitato anche Presidenti di Regioni, il maggiore sindacato italiano e associazionismo di varia natura, sono state dei flop clamorosi sia a Bari che a Napoli. Il partito meridionale rimane sulla carta e in ogni caso non sarà il prodotto della campagna sull’autonomia, che evidentemente non scalda il cuore del popolo.
Forse dietro le voci di una revoca della manifestazione del PD a Napoli a metà luglio, oltre che il ‘caldo’ e la partita a scacchi della Segretaria con De Luca, c’è anche il timore di un ulteriore, non improbabile, fiasco.
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