01 dicembre 2021   Articoli

Ricordo di Alessandro Leogrande, un esempio di rigore intellettuale

Giuseppe Coco - Corriere del Mezzogiorno

Giuseppe Coco - Professore di economia politica

Il 26 novembre di 4 anni fa moriva Alessandro Leogrande, un grande intellettuale ed editorialista del Corriere del Mezzogiorno. Ci sono molti aspetti che colpiscono immediatamente negli scritti di Leogrande, in particolare rispetto a quelle di molti commentatori e intellettuali meridionali, anche al di là della sua superiorità assoluta come ricercatore sul campo. Prima di tutto la sua concretezza. Leogrande non scrive di massimi sistemi, ma sempre di eventi e fatti concreti delle realtà locali che descrive, pur inserendo sempre la sua discussione nelle dinamiche europee e globali più ampie. Ciò gli consente allo stesso tempo di capire le forze basilari che generano anche fenomeni locali, ad esempio il crollo della ex-Jugoslavia e l’inutilizzabilità delle rotte napoletane nell’ascesa della mafia del contrabbando in Puglia, ma anche di non abdicare mai alla nostra fondamentale responsabilità come cittadini di un contesto specifico. 

Il secondo aspetto evidente è la sua onestà intellettuale. Leogrande non fa mai mistero di essere uomo di parte, ma credo che in nessuna pagina si possa mai cogliere un cedimento alla logica di partito rispetto alla indagine sulla verità. A fronte di una generalizzata adesione a una logica partigiana, di appartenenze localistiche, e un dibattito direi che ormai è strutturalmente organizzato per adesioni preconcette a tesi che discendono dalle appartenenze, la connotazione più chiara del dibattito pubblico italiano, mi pare che Leogrande sia stato una eccezione straordinaria.

L’ultimo aspetto è che, nonostante il giornalismo di Leogrande sia connotabile come giornalismo di denuncia, non si ritrova mai nelle sue pagine la tipica logica sfascista dei nascenti movimenti populisti che hanno costruito le loro fortune sulle incapacità delle forze politiche tradizionali di risolvere i grossi problemi delle nostre società. Leogrande non affronta mai i problemi con l’approccio di chi si indigna programmaticamente. Cerca di capire, e farci capire la complessità dei problemi, la difficoltà delle soluzioni di fronte alla grandezza dei problemi stessi. 

Alcune pagine illuminanti Leogrande le ha dedicate alla sua città e alla questione ILVA. Nell’analisi del problema ha mostrato più equilibrio e responsabilità di molti politici. Pur criticando il modello novecentesco di industrializzazione imposta dall’alto, Leogrande stigmatizza nel caso di Taranto la decisione di espandere la fabbrica a dismisura negli anni 70 piuttosto che quella di fondarla. E’ il gigantismo e la assurda decisione di espanderla a ridosso del centro abitato (o piuttosto di costruire a ridosso della fabbrica) il vero cancro. Denuncia la privatizzazione troppo veloce, ma la comprende alla luce dell’assurdità di uno stabilimento in teoria efficiente, seppur inquinante e pericoloso per i lavoratori, che però perde soldi a ritmi insostenibili. Denuncia l’arricchimento di tanti a fronte dello scarso lavoro, le ruberie interne, i sistemi collaudati di affidamenti a prezzi gonfiati della gestione pubblica, insieme alla militarizzazione della fabbrica privatizzata dei Riva e all’aumento insopportabile della sua pericolosità per i lavoratori del dopo. Ci mette di fronte insomma a uno specchio descrivendo un mondo in cui le responsabilità non sono occulte o concentrate nei cattivi di turno, ma diffuse. Non ci assolve col tipico procedimento del populismo della ricerca del nemico esterno, così popolare tra i nostri finti intellettuali. Ci chiama a uno sforzo collettivo, a scelte degne di un paese avanzato. Che non sono mai le velleitarie soluzioni di chi poi ha sfruttato anche la sua battaglia: chiudere, riconvertire la fabbrica a produzioni improbabili addirittura a luna park. Oppure programmare coscientemente un futuro di assistenza strutturale senza lavoro per la città. Questo tipo di logica oggi dominante era estranea a Leogrande. Egli credeva alla necessità di produrre per vivere dignitosamente, ma in un contesto sostenibile e non riusciva a rassegnarsi a un futuro di assistenza per la sua città. 

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